di Daniele Villaci
In realtà, il testo satirico della canzone s’inserisce perfettamente in uno dei dibattiti più ostici, da un po’ di anni all’ordine del giorno in Corea del Sud. Un dibattito che non ha nulla a che vedere con la Corea del Nord.
Lo Stato sociale: una spinosa questione politica
La recente crisi del debito che ha colpito i Paesi mediterranei ha riacceso l’attenzione mediatica sullo Stato sociale, che in Corea, come in altri Paesi asiatici, è in forte cambiamento. Nell’estate del 2011 l’allora sindaco conservatore di Seoul Oh Se-hoon indisse un referendum per abrogare il finanziamento pubblico alle mense scolastiche, voluto dalla maggioranza democratica del Consiglio. La storica bocciatura del referendum portò alle dimissioni del sindaco e all’elezione di un candidato del partito democratico alla carica municipale più alta del Paese. Le elezioni per il sindaco di Seoul furono considerate un test cruciale per comprendere la sempre più assodata propensione dei coreani verso un sistema di welfare inclusivo e orientare così le strategie politiche per le elezioni presidenziali del prossimo dicembre. Che ancora una volta si disputeranno nell’arena dello Stato sociale.
Il candidato, anzi la candidata, che ha vinto le primarie del Partito Conservatore Saenuri è Park Jeun-Hye, una politica di lungo corso da sempre indicata come successore naturale all’attuale Presidente Lee Myung-bak. Come spesso accade in molti Paesi asiatici, dall’India al Pakistan al Myanmar, Park non è nient’altro che la figlia del “grande timoniere” nazionale Park Chung-hee, che governò ininterrottamente dal 1961 fino alla sua morte nel 1979, considerato alla stregua di un dittatore nei Paesi occidentali, mentre in patria e in molti Paesi in Via di Sviluppo come l’artefice del miracolo del fiume Han: la trasformazione di una delle più povere economie agricole del mondo in una potenza industriale dell’export. L’appartenenza a una delle famiglie più illustri ma al tempo stesso più discusse del Paese rischia però di rivelarsi per lei un’arma a doppio taglio, come nel caso della candidatura alle presidenziali del Perù di Keiko Fujimori, figlia del discusso dittatore Alberto Fujimori.
Ma in Corea del Sud, i ricordi dell’era del Presidente Park e del “glorioso cammino” del Paese verso la prosperità appartengono oramai a una generazione troppo anziana e la stessa candidata così come l’establishment del suo partito, è cosciente che il risultato delle prossime elezioni si giocherà su chi tra i tre candidati maggiori avrà l’appeal necessario per attirare i voti delle generazioni più giovani e in particolari di quei trenta/quarantenni che faticano a raggiungere posizioni di vertice, in una società in cui il turnover generazionale è persino contrario all’etica confuciana dominante. Le stesse giovani generazioni che hanno trovato nel magnate dei software Ahn Cheol-soo il loro riferimento. Candidatosi come indipendente ed esterno al gioco dei due maggiori partiti, la battaglia del CEO della società di software Ahnlab sembra giocarsi essenzialmente su un progressivo ampliamento del welfare State e su una contestata legge contro l’abuso di posizione dominante da parte dei maggiori chaebols del Paese, i potenti agglomerati industriali tra cui Samsung, LG, Hyundai, da sempre sostenitori del partito Saenuri. Ancora una volta il dibattito sul welfare infuoca le reazioni politiche, rendendo centrale una messa in discussione generale di tutto il sistema produttivo.
Da un lato, infatti, i conservatori ricalcano l’eccesso di spesa pubblica raggiunto dalle amministrazioni democratiche nell’immediato dopo crisi delle Tigri Asiatiche, dall’altro i democratici boicottano i media, accusati di sposare le istanze dei conservatori e di prestare una copertura eccessiva alle notizie sulla crisi del debito che ha colpito i Paesi dell’eurozona. Eppure, le contestate riforme di politica sociale varate dal governo Kim avvenute per contrastare le ripercussioni economiche della crisi del’97, sono solo uno degli ultimi step di un processo avviato già dai tempi del “Miracolo del fiume Han”, con l’introduzione nel 1977 di un sistema di assicurazione sanitaria nazionale per i lavoratori delle grandi imprese.
Il welfare State coreano: alla ricerca di un modello di riferimento
La letteratura di settore ha sempre dibattuto sul modello di riferimento di politica sociale dei principali Paesi orientali, un modello talvolta definito confuciano (Jones, 1990), altre volte di ispirazione nipponica (Goodman & Peng, 1996) o ancora come una terza via tra il modello liberale americano e quello socialdemocratico dell’Europa occidentale. Il cosiddetto “welfare capitalistico” (Esping-Andersen, 1990), che ha segnato il cammino comune verso lo stato sociale dei Paesi asiatici di nuova industrializzazione (NICs), presuppone una subordinazione delle politiche sociali rispetto all’obiettivo dichiarato di una crescita economica duratura.
La politica sociale come strumento di politica economica ha visto quindi anche in Corea del Sud la progettazione di misure atte principalmente ad accrescere la produttività dei lavoratori e ad estendere i consumi a fasce di popolazione prima escluse, caricando le famiglie della responsabilità confuciana di assistenza agli anziani. L’esperienza coreana è dettata però anche dal vorticoso sviluppo del welfare privato, sia in ambito medico che assistenziale. Nel 2004, sebbene lo scheletro del welfare State fosse già stato implementato dal governo Kim, gli ospedali e le cliniche pubbliche raggiungevano appena il 10% di quelle totali e le università pubbliche il 14% [1].
Il processo di democratizzazione iniziato nel 1988 non ha infatti comportato un sostanziale stravolgimento del tradizionale modello amministrativo top-down che, accentuando la priorità sulla produttività, ha contenuto la spese per le politiche sociali a scapito di un fabbisogno nazionale crescente. Un modello che ha decretato nel 2010 la penultima posizione della Corea del Sud nella classifica per spese di welfare sul PIL tra i 29 Paesi OCSE [2].
Come anticipato, il momento cruciale per la creazione di uno stato sociale è avvenuto da risposta alla crisi del ’97-’98. L’aumento della disoccupazione e il declino dell’impiego a tempo indeterminato generarono uno shock sistemico nell’economia produttiva, determinando una contrazione del PIL fino a valori prossimi al -7% nel 1998. L’aumento degli ammortizzatori sociali per i disoccupati, l’estensione della copertura nazionale del ’77 anche ai lavoratori autonomi delle aree rurali e urbane e l’elaborazione di uno standard di vita minimo garantito furono alcuni dei dispositivi intrapresi dal governo Kim per uno Stato sociale ancora a livello embrionale ma in rapido sviluppo.
Attualmente, nonostante gli sforzi perpetrati dai governi successivi e il progressivo aumento di spesa pubblica per il welfare, lo Stato sociale coreano risulta ancora essere troppo conservativo rispetto ai bisogni della popolazione, in cui l’elevato tasso di invecchiamento rischia di ripercuotersi sulla produttività e da ultimo sull’economia reale. Come sostiene Kwon Soon-man, professore della scuola di Salute Pubblica della Seoul National University ed esperto di sistemi di welfare, il sistema di copertura assicurativa nazionale non è da solo più sufficiente. Nonostante la copertura sia universale, i benefit previsti non sono tutti a carico del sistema sanitario nazionale, con un 30-40% di spese sanitarie pagate direttamente dai cittadini al momento dell’erogazione del servizio. Alcuni strumenti di social policy risultano poi essere del tutto marginali rispetto agli obiettivi che si propongono, come il programma pensionistico nazionale e i sussidi per la disoccupazione, incrementando le disparità sociali tra chi dispone di una copertura assicurativa e chi non può permettersela o semplicemente non rientra nei parametri stabiliti dallo Stato [3].
I limiti si moltiplicano se si considera che il tax burden ratio coreano è fissato al 20.8% del PIL e che le previsioni stimano che nel 2050 il 13% circa della popolazione coreana avrà più di 80 anni. Previsioni che accompagnano quelle del boom del debito di pubblico che passerebbe, a livelli di tassazione costanti, dall’attuale 34 % a un valore di 116% nel 2050 [4]. La finanza pubblica sembra quindi rappresentare un ulteriore ostacolo in un Paese già gravato da un gigantesco debito da carte di credito (il 155% del reddito disponibile).
Lo stile di vita alla Gangnam, incentrato sul consumo sfrenato così come mitizzato dai media e dalla stessa classe politica, è stato il motore di una crescita economica duratura che ha permesso alla Corea di uscire vincente dalla trappola finanziaria, di puntare su un export competitivo, grazie agli standard sempre più elevati richiesti dal consumatore nazionale e di incrementare i consumi di beni superflui anche tra coloro che fino a quel momento ne era esclusi. Garanzie di crescita, queste, che oggi sembrano risultare vane, di fronte a una popolazione gravata dal debito privato che domanda un nuovo coinvolgimento dello Stato negli affari economici, schierandosi contro le politiche conservative che hanno privilegiato gli interessi di pochi, “quelli di Gangnam”, e hanno accantonato la necessità, quanto mai attuale, di ridisegnare il sistema di welfare nazionale.
* Daniele Villaci è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Pavia)
[1] Soonman Kwon, Ian Holliday, The Korean welfare state: a paradox of expansion in an era of globalisation and economic crisis, International Journal Of Social Welfare, 2006.
[2] The Korea Times, Korea Next to Last in Social Welfare Spending, 02-12-2010.
[3] John Power, Should Korea adopt a welfare state?, 16-01-2012.
[4] Balita, S. Korea faces soaring spending on health welfare, 28-01-2012.