Bravi gli editori che investono sulle copertine: con me, hanno vita semplice perché mi faccio attrarre molto facilmente, questo non vuol dire che scelga a scatola chiusa naturalmente! Ma se la copertina mi colpisce, siamo già a buon punto. E nel caso specifico è stata una copertina bianca, con disegni stilizzati ma a colori, a catturare la mia attenzione.
E’ così che mi sono imbattuta in 66th A2nd, casa editrice che – mea culpa . non conoscevo. E nelle sue collane molto particolari. Una, Attese, dedicata ai romanzi di storie sportive e di vita, l’altra che si chiama Bazar, che vale un viaggio multietnico, un melting pot letterario, perché dà voce alle seconde generazioni, quelli che magari per tanti di noi sono indistintamente stranieri e che invece non lo sono. Ci sono dentro intellettuali africani, c’è la banlieue parigina, ovviamente non poteva mancare la cosmopolita per eccellenza, New York, ma i tempi cambiano ed ecco emergere anche il Sudest asiatico in chiave letteraria.
Americana o cinese?
Io però devo rimandare l’approfondimento letterario perchè credo di aver pescato uno dei libri più spensierati e leggeri della collana. Si chiama Kitchen Chinese, l’autrice è Ann Mah, americana di origini cinesi come la sua protagonista, Isabelle Lee, newyorchese trapiantata a Pechino dopo essere stata mollata dal bel fidanzato e licenziata dal lavoro. Sì, l’avete capito, trattasi di una sorta di Bridget Jones in salsa asiatica. Ma essendo in salsa asiatica si aggiungono due elementi divagatori. La cucina, quella del titolo: Isabelle finisce col fare la critica gastronomica in una rivista per stranieri, Bejiing Now, e girerà per ristoranti, e non solo, raccontandoci prelibatezze delle tradizioni locali. E la “crisi” di identità: mi devo sentire più americana o più cinese? Sembra chiedersi la ragazza. Che tra l’altro fa fatica a parlare un mandarino corretto, attirandosi gli sguardi incuriositi dei locali.
La Pechino degli expats
Scopro infatti che Kitchen Chinese, titolo che sembrerebbe solo legato al ruolo da comprimaria che la gastronomia reclama in tutto il racconto, in realtà evoca anche qualcos’altro: è così che si definisce il cinese parlato dai figli degli immigrati, quello – appunto – maccheronico diremmo noi (chissà perché poi si cede sempre sulla metafora culinaria, forse per etichettare chi, in una lingua straniera quale che sia, sa solo ordinare la cena…).
Bridget jones in salsa asiatica dunque, ma se Londra qui è Pechino, man mano che leggo lo capisco: si tratta di una Pechino molto d’elite, quella della comunità di “expats“, locali alla moda, idoli chino-pop e ristoranti fusion, non cercatevi la Grande Muraglia o la Città Proibita. All’essenza locale ci pensa quasi solo Geraldine, l’amica occidentale di Isabelle, quella più “cinese” di tutti, nel senso che noi vogliamo dare all’idea (lanterne, tè, case tradizionali, ecc). Nonché, ovviamente, il cibo, per la gioia dei cultori, e chissà se piacerebbe anche alla mia amica food blogger Lili Madeleine (a proposito, date un’occhiata al suo blog di viaggi, cucina e botteghe, ve lo consiglio).
Allora, è pura evasione, macino le pagine perchè lo so che ci sarà la svolta per la protagonista e tutto filerà liscio. Ma a volte vorrei prendere Isabelle e scuoterla per la braccia per dirle “Svegliati su!”, oppure ho la sensazione che il racconto rasenti più l’autocommiserazione che l’autoironia, le situazioni sono un po’ forzate ed i personaggi poco sfaccettati e rinuncio da subito a cercarvi una certa psicologia… ma che dire? La storia si fa leggere e se cercate una lettura leggera dal taglio originale, potrebbe incuriosirvi.
Con l’inevitabile happy ending … oops, avrei dovuto non rivelarvelo? Ma tanto - ovvio -, non è un thriller né un dramma, altrimenti che Bridget è??