Dovrebbe essere un rom. I tratti da figlio del subcontinente indiano sono però molto evidenti; e tuttavia i modi di fare, e gli stracci che indossa, non so perché, sanno molto di Balcani. Forse è solo un rom che ha conservato con valorosa ostinazione i caratteri somatici della schiatta degli antenati. Quest’uomo nei giorni festivi chiede l’elemosina. Negli altri non so. Forse è un doppio lavoro. E’ un mendicante del genere ambulante: è uno di quelli che va incontro alla gente con un sorriso mesto e dolce stampato in faccia, non di quelli che s’accucciano negli angoli strategici del centro della città. Una settimana fa ci sbattei contro due volte nel giro di due ore. A me piace camminare a casaccio, seguendo l’ispirazione del momento. In questi pomeriggi festivi siamo due vagabondi per le vie della città: io per motivi ludico-ginnici-filosofici, almeno così m’immagino, lui per motivi economici. Chi sia il più balordo dei due, lo lascio giudicare al sagace lettore. Al primo incontro gli diedi qualche monetina, e fu come dare da mangiare ad un gattino abbandonato: sei suo per sempre. Con la differenza che il gattino è un animale innocente, l’uomo un furbacchione matricolato. Quando lo rividi, lui con la stessa maschera del cane buono e bastonato che guaisce con discrezione, parve non riconoscermi affatto. A mezzo metro di distanza lo guardai dritto in faccia e gli dissi: “Guarda che prima ti ho già dato qualcosa.” Il braccio di ferro facciale durò un secondo, al termine del quale fece tanto d’occhi e parve come folgorato dal riconoscimento e dalla riconoscenza: “Ciao amico! Dio ti benedica, amico! Ciao!”
S’intende che ci rivedemmo ancora: l’altro giorno. Lasciato il marciapiede del lungofiume, attraverso la strada per raggiungere lo spiazzo antistante il piccolo quartiere universitario ricavato qualche anno fa dal restauro di una congerie di secolari corpi di fabbrica, di non ignobile architettura, che componevano il vecchio ospedale della città. Di lì, un ponticello sopra uno dei ridenti canali che a raggiera da nord innervano il centro storico per poi sfociare nel fiume a sud, e in successione un sottoportico poco più largo di un normale marciapiede, conducono alla corte interna del complesso, dove trovi caffè e negozi. Altri budelli d’acqua e di pietra ricollegano questo salotto a cielo aperto all’apparato metabolico della città. E’ su questo stretto e leggiadro ponticello che m’imbatto nel tizio: lui è appena uscito dal sottoportico, io ho appena messo piede sul ponte. Per fuggire è troppo tardi. Incrociarlo ed ignorarlo bellamente equivale a fuggire, con protervia. Perciò lo guardo con una specie di paziente rassegnazione, e gli dico, con un tono amabile, rispettoso e derisorio insieme: “Ho la sensazione che noi c’incontriamo un po’ troppo spesso. Lei che ne pensa?” Ma lui non pensa affatto: mugola, piega e ripiega la testa verso la spalla destra, sorridendo e allungando il braccio destro con il palmo della mano aperto. Sembra un bambino che chieda una caramella. Per un po’ resto imbambolato. Poi mi arrendo. Tiro fuori il portafoglio. Ma neanche a farlo apposta non vi trovo nemmeno una monetina. Non un centesimo. Ho un principio d’irritazione. Gli dico secco: “Mi dispiace. Non ho niente da darti.” Ma il nostro eroe mica si fa prendere dallo sconforto: mi fa capire (come fa non lo so, ma lo fa) che di me ha una grandissima opinione, che di sicuro saprò trovare la soluzione del problema, che queste son bazzecole per uomo delle mie qualità. Oramai siamo ai negoziati. Gli mostro il portafoglio aperto, da una certa distanza. Faccio di più, visto che non c’è gente in giro: tiro fuori un biglietto da cinque euro (bastano cinque: sempre per sicurezza) e gli dico: “Vedi? Ho solo banconote.” Pensavo di essermela cavata, e me ne stavo per andare. Ma il poveraccio ha calato l’asso. Un asso imprevedibile. Inaudito. Mi dice: “Ma io ti do il resto…” e nel contempo la mano aperta si richiude, si caccia in tasca, ritorna fuori e si riapre per mostrarmi, ad attestazione della serietà professionale di questo postulante di strada, un bel mucchio di monetine. In tutta onestà di mendicanti che ti danno il resto non avevo mai sentito parlare. Son rimasto con la bocca mezza aperta nel tentativo di dir qualcosa. Ma cosa? Il tipo era veramente troppo forte. Ho cominciato a sghignazzare. Poi a ridere. Anche lui si è messo a ridere. Ad un certo punto mi ha perfino dato un colpetto sulla spalla con la mano, da vecchio compagnone. Insomma, gli ho dato i cinque euro. Senza resto, naturalmente. Coperto di benedizioni, l’ho salutato dicendogli: “E adesso, siamo a posto per un anno, chiaro?”
Sento che per puro caso lo rivedrò già la prossima settimana. Ma non è questo che m’inquieta. Allontanandomi, alla prima svolta mi domandai dove questo sciagurato avesse trovato l’impudenza di “offrirmi il resto”: forse il tipo era veramente eccezionale. Alla seconda svolta riflettei meglio: forse il tipo non era affatto eccezionale, ed è la miseria che distrugge ogni pudore. Alla terza riflettei ancora meglio: il tipo non era affatto eccezionale, la miseria distrugge ogni pudore, ma queste gesta tragicomiche necessitano di un deuteragonista all’altezza. Un tipo eccezionale. Eccezionalmente fesso. E’ questo che m’inquieta.
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