Una crociata irachena

Da Kris @zinfok

[da Gara]
Gara ha intervistato una delle lesbiche irachene minacciate di morte dalla crescente persecuzione ostile, non ancora denunciata, contro la comunità omosessuale irachena.
A.B.| BAGHDAD
Perché ti nascondi?
Sono fuggita di casa quattro settimane fa. Ho ricevuto una mail che minacciava di rivelare alla mia famiglia la mia omosessualità. Nei migliori dei casi, mi obbligherebbero a sposare un uomo; nella peggiore, mi ucciderebbero. Ho sempre saputo che sarei dovuta andarmene da casa, ma non credevo che sarebbe successo così in fretta.
E' una situazione comune per tutti gli omosessuali in Iraq?
Più di mille omosessuali sono stati assassinati in Iraq dal 2003. Io ho perso sette amici stretti ai tempi di Saddam, non ci etichettavano come delinquenti, non sono state fatte indagini su di noi, però non potevamo uscire dal paese. Oggi possiamo viaggiare in altri luoghi, ma l'Iraq è pieno di gente ammazzata il che rende la cosa peggiore.
Chi sono questi "assassini"?
L'esercito di Moqtada al-Sadr e le forze di sicurezza sono le più aggressive. Siamo segnalati anche dalle nostre famiglie. Più di mille omosessuali sono stati uccisi dal momento dell'invasione, soprattutto da quando il religioso sciita Ali al-Sistani ha emesso, quattro anni fa, una fatwa (dettame giuridico relativo alla legge islamica) nella quale si affermava che gli omosessuali dovevano essere uccisi nel modo più severo possibile. Per questo, molti vengono torturati e poi assassinati o bruciati vivi. Quando i cadaveri arrivano in ospedale i segni indicano che sei omosessuale, per questo non si aprono le indagini. In alcuni casi, gli hanno messo la colla nell'ano e sono stati obbligati a bere e mangiare fino a scoppiare.
Per questi delitti non vengono aperte delle indagini?
Il Governo non sta facendo niente. Lo stato di alcuni corpi che arrivano in ospedale è il chiaro segno di un'azione criminale. E' come un crimine d'onore, qualcosa come un "affare di famiglia", per questo nessuno deve intervenire.
Dite di essere un'attivista. Come portate avanti questo compito?
Le persone "normali" in Iraq possono lottare apertamente per i propri diritti, ma non noi. Possiamo solo nasconderci e proteggerci fino a che non riusciamo ad uscire dal paese. Lavoro con una ONG lgbt irachena con sede a Londra, creata per proteggere gay, lesbiche, bisessuali e transessuali; finanziata da altre organizzazioni internazionali.  Abbiamo aiutato più di 50 persone ad uscire dall'Iraq. Fino a quando non riescono a lasciare il paese, se ce la fanno, gli offriamo una casa sicura o un rifugio. Attualmente ci sono due rifugi in Iraq, entrambi a Baghdad, in cui facciamo alloggiare una cinquantina di persone. Tuttavia, alcuni non hanno altra possibilità che rimanere senza passaporto e senza documenti, dal momento che sono dovuti fuggire, correndo, per salvarsi da una aggressione; in questo modo diventa difficile potergli dare un aiuto legale. Quelli che hanno il passaporto fuggono in Libano o in Giordania. La Siria era una possibilità, ma per la sua attuale situazione, non lo è più.
Ha cercato di lasciare l'iraq qualche volta?
Lo feci tre anni fa. Sono stata una anno in Siria dopo aver ricevuto alcune minacce. L'ultima volta, quando me ne andai di casa, ho cercato di volare verso il Libano da Arbil (Kurdistan iraqueno), ma i  miei amici venivano molestati ed io non avevo un luogo sicuro dove andare. Ora è praticamente impossibile. Un mio amico mi ha detto che la mia famiglia ha mandato il mio nome e la mia fotografia agli aeroporti e ai posti di controllo.
Hai dei contatti con la tua famiglia?
Non posso correre questo rischio. Hanno i loro sospetti, ma non gli ho mai detto apertamente di essere lesbica. So che mi stanno ancora cercando, ma non gli posso dire di essere lesbica. Penso che mi ricordino come una figlia, e non solo come un "frocio", che è come veniamo chiamati in Iraq.
Come può la comunità internazionale aiutarvi in questa vostra lotta?
I governi stranieri devono capire che essere omosessuali in un paese come questo implica una rischio enorme per le nostre vite. Devono riconoscerci come rifugiati politici affinché si possa continuare a vivere.

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