Dopo tangentopoli, i partiti, che fino allora si erano divisi la rappresentanza, furono spazzati via dalle indagini giudiziarie e, da un’indignazione popolare culminata con la famose monetine scagliate contro Bettino Craxi all’uscita dall’hotel Raphael.
Nel caos generato, si insinuò, abilmente, un imprenditore che si ergeva a nuovo, sia perché non veniva dalle segreterie di alcun partito e sia perché il modo di presentarsi era diverso rispetto a una politica fatta di tribune elettorali, di comizi nelle piazze, di parole che non si riuscivano a capire, tanto da definirle politichese.
Sparirono i partiti così come li avevamo conosciuti e, nacquero i partiti costruiti intorno a un leader e, anche uno dei magistrati del pool mani pulite ne fondò uno.
Bene dopo vent’anni di quella che è stata definita la seconda Repubblica, a che punto ci troviamo oggi?
L’Italia non è migliorata, ci portiamo dietro gli stessi problemi che la vecchia Dc e PSI non hanno risolto e, le promesse di Berlusconi e Fini di una Italia liberale, riformata e moderna sono rimaste tali.
Berlusconi è in caduta libera e il suo partito nella confusione, La Lega è ridimensionata, dopo le vicende dei lingotti d’oro degli investimenti in Tanzania e, delle lauree in Albania, e pare, dal recente esito del voto siciliano che, anche IDV di Di Pietro e SEL di Vendola non se la passino meglio. Il PD, secondo i sondaggi sarebbe il primo partito ma, le diverse anime (rottamatori e rottamati), contrastanti, non fanno ben sperare in un’azione di governo condivisa e duratura.
E allora? Dovremmo affidare l’Italia al nuovo leader di turno, carismatico e capo popolo?
Oppure, dovremmo dare una spinta affinché possano essere spazzate via il populismo, la demagogia, i privilegi della casta,il finanziamento pubblico ai partiti diretto o indiretto, le leggi ad personam, i partiti nei consigli di amministrazione pubblica e, le partecipate, gestite dai partiti… e via dicendo. Ma per ottenere tutto questo, non servono, più solo, i contenuti, le alleanze, un leader ma, una democrazia diretta, partecipata, così da avere la possibilità di misurare il gradimento e revocare, in caso di mancanza di risultati, il mandato elettorale, senza attendere la fine della legislatura.
Utopia?
In Islanda dopo la crisi finanziaria che ha travolto l’isola del Nord e visto crollare le sue tre più importanti banche, la cui nazionalizzazione ha fatto esplodere il debito pubblico, ci stanno provando.
Dopo il crack di Lehman Brothers, per accedere ai crediti del Fondo monetario internazionale il nuovo governo islandese, socialdemocratico, ha dovuto imporre dure riforme. I cittadini dell’isola però si rifiutarono di accollarsi il debito di Icesave, una banca privata fallita, in un referendum che bocciò il piano concordato da governo e Fmi, l’evento più famoso della cosiddetta rivolta delle padelle. Al fine di recuperare il dialogo con la popolazione, l’esecutivo di Jóhanna Sigurðardóttir ha lanciato l’idea di far scrivere la riforma della Costituzione dagli stessi cittadini. I lavori sono stati seguiti tramite internet e si potevano dare dei suggerimenti commentando tramite facebook e twitter ai 25 delegati incaricati di riscrivere la Costituzione.
In un momento come questo, di crisi di sistema, piuttosto che girare intorno allo status quo, servirebbe un elemento dirompente che, possa smuovere il cittadino dall’apatia e indifferenza nei confronti della “cosa pubblica”: degli organi di rappresentanza trasparenti e controllabili in tempo reale, che servirebbero a evitare le disfunzioni di un sistema chiuso, autoreferenziale e non disposto, ovviamente, ad autoriformarsi.
Una democrazia 2.0 è possibile, basta collegarsi.