Una facciata antiquaria, a monito di una Chiesa da riconsolidare (Seconda parte)
11 gennaio 2013 di Redazione
di Paolo Marzano
Vista dall’interno della cupola del tempietto dell’ Osanna a Nardò (1603) – Foto di Fernando Pero
E’ importante dunque, in questo studio, notare come la presenza di ‘paramenti’ sacri e la loro ‘diversità di propagazione’ nell’uso liturgico, diventi vettore di utile e diretta comunicazione. Il Salvio, a quanto dice l’abate Vincenzo d’Avino, (in Cenni Storici Sulle Chiese Arcivescovili, Vescovili, E Prelatizie, Nullius del Regno Delle Due Sicilie, 1848) forse fu anche maestro del Ghislieri (Papa Pio V), affrontò con colta e consapevole maturità strategica l’importanza di questi sacri ‘accessori’ e il loro immateriale valore aggiunto. E proprio grazie a questa sofisticata ‘strumentazione’, superò con intellettuale costanza e passione, quella superficialità e quella mancata responsabilità dell’uso dei ‘moti dell’animo’ che può muovere, al fine, la fede.
“[…] Nella continua occasione di assistere al Coro osservato avea, che alcuni de’ suoi Canonici soverchiamente frettolosi, e alquanto distratti, e disattenti recitavano tanto in fretta l’Officio, che tirandosi dietro la voce degli altri tutti, mancavasi molto a quella pausa, e devozione, che ricercarsi nel salmeggiare. Chiamatili a se ammonilli il Vescovo più, e più volte. Ultimamente vedendo, che nulla approfittavansene, aspettò che una mattina tutti fussero al Coro i Canonici in atto di aspettarlo per cominciare. Comparve egli, ma vestito, e adorno di tutte le vesti Ponteficali, e assisosi alla sua Sede con una certa aria di maestà, e di rigore, che fuor del solito scorgevasegli in volto, fece un Ragionamento con tale calore, e veemenza, che ne rimasero per qualche tempo storditi. E tanta fù la compunzione, e’ l terrore di quei, sovra di cui principalmente scaricorsi quella piena, che per lo avanti ravveduti, ed emendati riuscirono e di consolazione al zelante Pastore, e d’esempio a Compagni.”
Da lettore di Teologia nel real Monastero di S. Domenico a Napoli, fu poi nominato maestro degli studi nella Minerva di Roma. Ed è qui che mostrando ingegno, ma anche fermezza, coraggio e umiltà, espressamente persuaso a scappare, scelse di rimanere da solo a difendere durante il tremendo saccheggio (il sacco di Roma), il suo convento. Con l’intento di preservare tutti quegli ‘accessori’ che rischiavano di essere depredati. Caricati sulle sue spalle in fretta e furia e più volte (oggetti d’argento, recipienti, libri, tanto preziosi quanto sacri), vennero nascosti nei sotterranei. Passato il nefasto saccheggio, i religiosi, tornando al convento della Minerva, trovarono il Salvio che rimetteva al loro posto gli oggetti salvati. Azione che valse, al zelante domenicano, la nomina di Baccelliere ordinario di Napoli. Dopo la laurea dottorale di Maestro, trovatosi vacante lo studio generale di Parigi, fu fatto reggente generale dell’Ordine, di quella città. Portato per la predicazione e l’istruzione dei fedeli fu scelto da Carlo V come confessore, ma anche come interlocutore per confrontarsi spesso su decisioni importanti.
Ciò che maggiormente lo caratterizzò, fu il saper distinguere e vedere la proliferazione di alcuni libri, che in quel periodo si contrapponevano alla dottrina della chiesa cercando di scardinarne le basi. E non mancano certo le testimonianze di episodi indicativi di tale divulgazione. Viene riportata da Franco E. Penzone “La particolare vicenda dei Sancez, signori di Santarpino” dove, per esempio, è raccontato l’attacco, in casa di Donna Brianda, a Napoli, di J. De Valdés, diretto contro il Salvio. Durante una discussione, nella quale il domenicano, affrontò teologicamente il veemente interlocutore, ascoltato dai molti invitati testimoni. Solo l’intervento della proprietaria con un “caglia (smettila) Valdés”, evitò al teologo, l’aggressione. Anche l’Ochino, che a Napoli pubblicava scritti indicati come eretici, venne invitato dal Salvio, ad una disputa pubblica, con dotti partecipanti. L’interlocutore acconsentì, ma arrivato il giorno pattuito non si presentò, anzi partì e non mise più piede a Napoli. Ed è a proposito del libro e il fuoco che si è riportata la notizia.
Anche questo è un episodio che occorre riportare ai fini della nostra ricerca che individua quella ‘filologia antiquaria’ scultorea e variamente ‘accessoriata’, sovrapposta a strutture architettoniche pre e post cinquecentesche. E nel corso di questo studio si darà motivo e risposta a tali premesse.
Leggiamo pertanto la descrizione di una serie di particolari composizioni che si presentano a noi come tesori artistici ‘esposti’ e ben distribuiti nel paesaggio urbano. Si elencheranno, dunque, i casi in cui, ritengo quanto mai evidente, quella particolare ‘eloquenzaantiquaria’, capace davvero di comporre i termini di una filologia che si esprime “per materia e ragionamenti” come dice il Ghiberti nei suoi Commentari. Vedremo come si impiegano, concetti ‘artigianali’ esemplari e straordinari per diffondere sia la qualità dell’esperienza lavorativa, sia il potenziale di comunicazione raggiunto. Il susseguirsi di episodi scultorei, qui presentati, dunque, può superare l’accezione interpretativa solitamente ‘iconologica’, inoltrandosi in una visione alterativa di collaborazione globale alla costruzione dell’opera totale. Il ‘cammino’, che va dall’entrata, percorrendo l’asse centrale della navata, delle chiese, può essere vissuto intellettualmente anche se viene dilatato fino a comprendere tutto un centro storico. I luoghi, gli spazi, gli abiti liturgici segnano più di quanto si possa pensare, questa città, perciò è sempre auspicabile l’aggiornamento di un’indagine conoscitiva che apre alla sensibilità individuale, completandosi con l’intorno, riscoprendosi continuamente.
Nella facciata superiore del S. Domenico di Nardò è evidente una disomogeneità del trattamento compositivo tra la tipologia fittamente decorata della finestra tripartita centrale che ‘urta’ con le sue cornici, spingendo senza regola sulle eleganti paraste estroflesse laterali. Ritengo che qui sia evidente l’incontro-scontro e spinta, di due visioni progettuali; quella antiquaria (finestra tripartita centrale con finta balaustra) con quella ‘di maniera’ ormai tardo rinascimentale. Una verticalità silenziosa ed opportuna, tarantinianamente razionalizzante, capace di smorzare l’insistenza delle due lunghe ‘stole’ ripiegate che fanno da base ai gradi capitelli dell’ordine gigante adottato. In realtà è possibile che i tempi lunghissimi di costruzione, i terremoti, le ristrutturazioni, gli aggiornamenti artistici che applicavano linguaggi diversificati, abbiano debilitato la tensione costruttiva iniziata dal Tarantino.
Particolare della facciata superiore del S. Domenico di Nardò
Nei due grandi capitelli che terminano la facciata superiore, è evidente la chiara simbologia domenicana, innalzata ad insegna dell’Ordine. Però, ciò che promette la soluzione dell’originale ordine gigante ai lati, non viene mantenuto dall’apparato’ dell’impaginato al suo interno. Accostamenti disorganizzati forse risultato di aggiunte (o sottrazioni !?) posteriori. Nel capitello a sinistra si legge un giglio segno di integrità e moralità, il librosignifica l’invito alla meditazione della Sacra Scrittura, quindi della regola, la palma (equivocata da alcuni autori come una ‘piuma’, ma assolutamente non corrispondente alla simbologia, almeno, di questo ordine mendicante) è la simbologia del martirio dell’eroismo che necessita nella fede.
I due capitelli dell’ordine gigante ai lati della facciata superiore del S. Domenico di Nardò
Proprio su questo capitello, (a sinistra) è interessante la posizione del libro. Questo è posto, non ‘nel’ fuoco, ma ‘sul’ fuoco (da notare la tecnica di rivestimento del braciere, la regola filologicaantiquaria di lingua prettamente artigianale, probabilmente prevedeva l’evidenza della convessità caratterizzandola con l’uso dell’effetto squamato come la cupoletta dell’Osanna. Tecnica derivata dalla linea di tegole o embrici di copertura). In questa posizione, il ‘libro sospeso’ ricorda il dipinto di P. Berruguete, (1480 circa) al Museo del Prado a Madrid. Allora, quello scolpito, sul S. Domenico di Nardò, è un libro che la fiamma non brucia, e che si eleva a simbolo, ma che può essere interpretato anche come monito all’eresia, comprovata da eventi realmente accaduti nell’esperienza del Salvio a Napoli. Si cita, a questo proposito, il racconto dal Paoli che riporta nella biografia del predicatore domenicano di Bagnoli: “… e dopo con una bella, e Cristiana predica fatta da Ambrosio Salvio”, molti libri eretici vennero dati alle fiamme di fronte al porta maggiore dell’ Arcivescovato (evento registrato prima del 1543).
“Dopo questo s’acquitarono le cose ne s’intese mai, che simili libri fussero ritenuti da veruno, e serbati, e se pure si parlava della Scrittura da alcuni era con più modestia, e sobrietà”. una Per i libri dell’ Ochino il Salvio scelse che venissero bruciati in pubblico. Il Ghislieri (futuro Papa Pio V) sulla scorta di questa esperienza, lo volle accanto a se, a Como e per nove anni da inquisitore. Nell’altro capitello, a destra, invece di aggiungere altri simboli domenicani come il globo, il bastone, il cane, la stella, si preferisce apporne uno solo. Un espediente comunicativo e un chiaro monito per il cui significato, in quel preciso momento storico, si impegnavano i domenicani del Salento. La grande ‘fiaccola’, infatti, comprende tutto lo spazio (la particolare conformazione e simmetria del soggetto approssima anche ad un segno zodiacale) con fondo a barre verticali. La fiaccola è tra le simbologie dell’Ordine domenicano, simboleggia la diffusione della parola di Dio tra i fedeli e gli infedeli per opera dei Padri Predicatori.
Un altro accadimento che a noi interessa per l’analisi, fu quando il Salvio diventò priore di S. Pietro Martire a Napoli. In questo periodo inizia è indicata la produzione e ad interessarsi maggiormente alla conservazione dell’Eucarestia, inventando nuove forme di tabernacoli e alcune custodie per il SS. Sacramento di quel convento. Ed è “… che avendo in que’ tempi appunto preso piede l’eresia contro l’esistenza di Cristo nel Sacramento, parve molto a proposito questo nuovo ornamento: dal quale eccitavasi via la devozione verso quel divin Pane. Ne solo a Napoli lo promosse il Salvio, ma ancora in varie parti della diocesi essendo vescovo”.
La mia ricerca ha voluto evidenziare anche la forma e la simbologia del modello di quel tabernacolo, in riferimento, sempre alla nostra linea di studio del processo antiquario come linguaggio chiaro, facile da esportare variandone a seconda del caso la scala e adattandone i significati in riferimento al programma iconografico adottato.
Il disegno del tabernacolo a foggia di tempio, di Michelangelo Buonarroti, ispirò Ambrogio Salvio, suo contemporaneo, a produrne varianti a Napoli e nella sua Diocesi. A conferma della metodologia artistico-antiquaria qui sostenuta, ho finalmente trovato l’interessante disegno del tabernacolo che suggerisco e indico con piacere ai lettori:
L’Istoria della basilica diaconale, collegiata e parrocchiale di S. Maria in Cosmedin, ROMA, di Giovan Mario Crescimbeni, Chapître de la cathédrale Saint-Jean, la figura del tabernacolo a pag. 163).
E proprio, appena divenuto vescovo di Nardò, oltre a riparare il convento di S. Maria de Raccomandatis e costruirci la torre campanaria, dotò di molti arredi sacri la cattedrale (una pisside d’argento, un vaso d’argento, per gli oli sacri, un anello d’oro con pietra turchina, un apparato intero di damasco di color viola ed un altro di seta di color rosso, varie pianete, tunicelle, un paliotto.
Importante per questo scritto e per l’obiettivo che si pone, è ascrivere al Salvio, l’intuizione di spostare il coro dietro l’altare per favorire, i fedeli, ad una maggiore partecipazione alla celebrazione, in quanto tale avanzamento del tabernacolo avrebbe favorito la sua adorazione e la migliore partecipazione dei laici alla ‘mensa eucaristica’. A lui, infatti, si deve l’introduzione nella diocesi neritina del culto delle ‘Quarantore’, (esposizione del sacramento sontuosamente ornato, per quaranta ore di fila a ridosso del carnevale e prima del giovedì grasso).
fianco di S. Domenico Nardò. Riquadri con dipinti che riportano segni e tracce appena comprensibili. Figure di vescovi, santi, putti, fedeli in preghiera, dentro cornici, stemmi e composizioni come arazzi che simulano tessuti preziosi esposti, pronti a rendere più preziosa e coinvolgente la cerimonia del percorso processionale
La città assorbe tradizioni, usanze, culti trasformando volta per volta la sua trama. L’eccezione delineatasi, corrisponde a quando, essa stessa, diventa percorso di redenzione e preghiera. Infatti, può succedere che le quinte murarie, a volte, partecipano all’allestimento di paesaggi devozionali e testimoniano l’importanza del coinvolgimento di tutta la popolazione ad un rito. Alcuni centri storici (‘500–‘600) si animavano illuminandosi di una diversa atmosfera e diventavano i diretti interpreti di una celebrazione. In effetti, come si può notare, basta saturare i contrasti e giocare con l’intensità dei colori per vedere apparire immagini riprese per le strade della città. Si delineano grandi figure dipinte in ri-quadri ben strutturati, sui fianchi delle chiese, proprio durante il cammino del centro storico.
Ma allora cos’era prima questa città e cosa suggerisce quest’idea di un percorso sempre ‘apparato’? Come percepiva la collettività, la città così ‘pre-parata’? Quale sensazione si catturava dalla generale visione delle sue strade che si alternavano, colorate e addobbate, come gallerie d’arte?
fianco della chiesa del Carmine, Nardò
Un ‘museo diffuso a cielo aperto’, un percorso sacro o un tragitto liturgico, forse un sentiero allestito, sempre pronto per un’eterna ‘rappresentazione’ e/o celebrazione di manifestazioni religiose.
Fianco della chiesa di S. Giuseppe, Nardò
Ritengo importante, a questo punto, tentare una, certo incompleta, sintesi e definire meglio qual è lo scopo della mia ricerca e il perché viene proposta con costante cadenza, l’elencazione di descrizioni, con dettagli e immagini di ‘oggetti d’arte’ funzionanti e attivi, modificabili e quindi trasferibili, come strutture più grandi, piccoli tabernacoli o arredi e paramenti sacri. E’ opportuno dunque cercare di ‘costruire’ un approccio alternativo, prettamente intellettuale, che comprenda e valuti diversamente quell’atto sublime della preparazione, degli oggetti compartecipanti, al rito.
Evidentemente (lo vediamo dalla conformazione e dalla propagazione degli elementi di arredo sacro nei nostri centri), una parte importante del ‘soggetto’ della rappresentazione, è consegnata all’allestimento delle scene e alle sequenze urbane che si susseguono e compongono, per quell’evento, un altro volto, della città. Il corteo religioso, pronto all’uscita (per entrare nel tempio o entrare nel circuito cittadino), prima sceglie il tipo di presentazione, quindi, ‘come’, ‘cosa’ e con ‘quale intensità’, comunicare. Quindi ecco gli abiti, i paramenti, i simboli, i segni, le reliquie, i baldacchini mobili e il loro ordine di uscita sul proscenio della città, tra la rappresentazione e l’attenzione del pubblico che, in questo caso, è raccolto ed emozionalmente coinvolto. E’ il momento in cui l’urbano si prepara alla ‘scena collettiva’. Questa indagine, allora, osserva tutti quegli ‘accessori in movimento’ che prefigurano l’innesco di un ‘moto d’animo’ e, per questo, si completano con le scene di un percorso cittadino in attesa del sacro ‘consumo’ collettivo della città.
Confronto fra gli abiti e alcune e pettinature, della virtù cardinale Fortezza, nel Mausoleo degli Acquaviva d’ Aragona di Nardò e quelli rappresentati nelle opere del Botticelli. In ordine da sinistra: Il Ritorno di Giuditta a Betulia 1472. Virtù cardinale la Fortezza del Mausoleo degli Acquaviva d’Aragona 1545. Prove di Cristo, Cappella Sistina 1482. Da sopra: Part. Una delle grazie della Primavera 1482. Ritratto di Simonetta Vespucci 1476-80. La Fortezza 1470
A volte succede che, parti di un monumento, vengano traslate e poste in altri luoghi. Si opera, in questo caso, una forma di de-contestualizzazione e cambiamento di funzione dell’oggetto d’arte. L’esempio più chiaro a Nardò è lo spostamento settecentesco del cenotafio degli Acquaviva che dalla zona del coro della chiesa di S. Antonio venne collocato in una stanza attigua ‘incastrandolo’ sul fondo di un muro assolutamente non adatto alle dimensioni magnifica ‘macchina’ (secondo P. Diego da Lequile nella sua Relatio historica). Infatti, le due figure di frati in alto, ai lati, sono state accorciate per arrivare all’orribile risultato che non ha previsto neanche, dalle analisi della C. Gelao (in Monumenti funerari cinquecenteschi legati alla committenza Acquaviva d’ Aragona) il posizionamento centrale della probabile Pietà, come degli accessori delle virtù cardinali (la spada della Fortezza, la bilancia della Giustizia o gli avambracci con altri accessori delle altre virtù, del monumento del 1545 amputato forse prima dello spostamento, dagli altri ‘apparatori’ del ‘700).
Nardò, via S.Giovanni, Cristo sorretto da angeli (da Città e monastero) e la pittura di Giovanni Bellini, Cristo morto con angeli 1460 -1470 Museo di Rimini. La tematica del Cristo morto sostenuto da angeli appartiene all’arte veneta per cui, la ‘linea adriatica’ (influenza veneta) che abbiamo incontrato altre volte, ha certo contribuito ad arricchire il bagaglio di schemi, iconografie, composizioni riconosciute anche nel Salento
Quella Pietà trasportata in un altro luogo, in via San Giovanni, forse è stata appunto salvata, proprio dislocandola “nel cortile di un palazzo nobiliare sito a qualche metro dalla chiesa” (Gelao), e forse dalla sua originale collocazione. L’ipotesi ‘originaria’ creata da me (immagine), del posizionamento della Pietà sul Mausoleo degli Acquaviva d’ Aragona, prova visivamente tale intuizione della Gelao. E, forse, a conferma della stessa intuizione vanno ascritti, ritengo, la somiglianza dei Lachesis e Atropos (i due putti alati poggiati simmetricamente col gomito sul teschio) e gli angeli che sostengono il Cristo. Non conosciamo la loro originaria posizione, ma notevole è (come al solito nelle figure nell’ambito salentino) la differenza tra l’incarnato delle sculture e il panneggio da cui sono avvolte.
Confronto del Lachesis e Atropos (i due putti alati poggiati simmetricamente col gomito sul teschio) con gli angeli che sostengono il Cristo nella Pietà
L’elementarità dei visi, delle braccia e dell’espressione del volto, stride con la particolarità dei dettagli dei ‘versi’ delle ‘pieghe’ delle tuniche ben studiate (naturalmente, a parte il tentativo di inserire un embrione di ‘bewegte Beiwuerk’ accessori in movimento, sulle maniche delle due tipologie di angeli e putti). Un debole effetto plastico nel rappresentare il ‘moto d’animo’, che rimane disgiunto dal resto della composizione. Evidenzia sia la possibile partecipazione di più persone all’opera, sia l’uso, non proprio adatto al contesto in cui veniva applicato quell’effetto (sicuramente assimilato in bottega dai modelli di riferimento posseduti dagli artigiani e ridotto ad equivoca decorazione).
Ipotesi di inserimento della Pietà, nella sua probabile posizione originaria centralmente sopra il Mausoleo
Lo stesso monumento dell’Osanna di Nardò (1603) a pianta ottagonale, riprende il chiaro e leggibile ‘lessico’ decorativo attinente ad oggetti liturgici. Diventa quanto mai esplicito il riferimento al gusto ‘antiquario’ dell’opera, nella commistione decorativa usata. La caratterizzano infatti, guglie tronco piramidali che segnano i costoloni della cupola, la stessa copertura della cupola ottagonale con squame rivolte all’insù, archetti quadrilobi segnati dall’originale occhio centrale, uno per lato, poi gigli e l’alta trabeazione con scritte e altre decorazioni. I sette gradoni alzano il tempietto a cupola come una lanterna o un ciborio o forse addirittura un pulpito. La forma tardo-rinascimentale comprime il ‘revival gotico’ interpretabile dagli archetti polilobati, dalle guglie e dai costoloni della cupoletta. Anche se il riferimento ai cibori medievali non è azzardato. D’altronde Nicola Pisano (1220-1284) detto de’ Apulia, già nel 1260 aveva creato pergami includendo nella visione federiciana la componete gotica dei contenitori sacri. Anche questo intervento d’arredo, decora l’urbano per catalizzare l’attenzione scenica su quello che diventa, durante la celebrazione, un ‘interno’ cittadino. Un’antica colonna (pagana) esterna alla città, rivestita, cristianizzata e ‘apparata’, quindi coinvolta in un gioco di evidenziazione lungo percorsi ‘interni’ urbani religiosamente qualificati.
Arca di S. Domenico, Bologna, Nicola Pisano (detto de’ Apulia) 1267 con allievi – Pergamo del Battistero di Pisa, Nicola Pisano (detto de’ Apulia) 1260 – Castel del Monte 1250-1260 Federico II di Svevia cortile ottagono come l’Osanna di Nardò – Tempietto dell’Osanna Nardò, Largo porta S. Paolo 1603
Un altro esempio di sovrapposizione decorativa, ai fini di un’accettazione ‘convincente’ della composizione generale, è il fastigio realizzato nella seconda metà del ‘600 sulla parte superiore del sedile di Piazza Salandra a Nardò. L’ennesimo volume ‘puro’ cinquecentesco che si ‘adorna’ di volute e intrecci, cornici e decorazioni del repertorio accademico artigianale di sicure e laboriose maestranze. Praticamente si distoglieva l’attenzione del ‘dramma’ perpetratosi in quello spazio pubblico, sublimandone il significato e ‘deviandolo’ nell’azione mediatrice dei santi patroni della città, per la gloria dei cieli. Il Manieri-Elia descrive bene le caratteristiche di quella cultura che pietrificando gli eventi, ne stabilisce la connotazione ideologica, per lo più sovvertendone i significati: “ … basterà costruire un modesto rialzo di pietra alla facciata dell’edificio più in vista della piazza e farvi montare sopra una decina di metri lineari di riccioli e volute di ‘leccese’, sormontati dalle tre statue dei Santi protettori, secondo il disegno di un maestro capace. […] resta da rilevare , al di là della attribuzione di un’opera di notevole pregio ma, comunque, di routine, l’evidenza della separazione, per la preparazione fuori opera ( e forse in parte a piè d’opera), dei vari ‘pezzi’ del montaggio: tutti elementi di repertorio, perfettamente catalogati; disposti in serie, l’uno accanto all’altro, come in una scena o un addobbo provvisorio. […] Queste osservazioni – e ci siamo attardati a illustrare sia la natura ideologica della collocazione di elementi di decoro religioso, sia l’automatismo produttivo della prassi realizzativa – possono ripetersi quasi ovunque per un lungo periodo: sarebbe facile ripetere il discorso per il duomo di Gallipoli, come per il crocefisso di Galatone e per la parrocchiale di Maglie”.
Il fastigio realizzato nella seconda metà del ‘600 sulla parte superiore del sedile di Piazza Salandra a Nardò
Possiamo permetterci allora, di intendere, il sedile di Nardò, composto da probabili tre livelli di lettura, sovrapposti e facilmente individuabili (come d’altronde nelle facciate di molte chiese della controriforma); cominciando dal basso, il primo livello è lo spazio della piazza che penetra nell’ambito dell’austera struttura cubica dai grandi archi; il secondo è quello degli inserimenti circolari (riprendono i medaglioni federiciani e sono posti ai lati delle arcate); il terzo è dato dall’evidente apparato iper-decorativo che sfiora il ‘trompe l’œil’ (dal francese ”inganna l’occhio”).
Inserimenti circolari a bassorilievo (riprendono i medaglioni federiciani e sono posti ai lati delle arcate)
Qui, la nostra riflessione ha bisogno di contestualizzare i crudi accadimenti; cosa rappresentano quei due medaglioni chiari sulle facciate del Sedile in piazza Salandra? Forse è la probabile rappresentazione di una maschera apotropaica neritina utile ad esorcizzare eventi bellicosi e tragici. Ma invece ritengo molto probabile, la realtà macabra che si poteva osservare, purtroppo com’era d’abitudine (del Guercio di Puglia), con raccapricciante evidenza, quando le teste ciondolanti rimanevano mesi (per 72 giorni, da quel dì del 24 agosto fino al 11 ottobre del 1647, racconta negli annali l’abate B. Biscozzi) appese e in evidente stato di decomposizione, poste probabilmente allo stesso livello degli odierni inserimenti, dei due bassorilievi. Questi sì, derisori e grotteschi quanto terribili. Gli elmi chiusi, su via Duomo, si ‘aprono’ poi, nella piazza, in un gioco beffardo. Ed ecco spuntare la ‘linguaccia’ dai due elmi (delle teste mozzate, esposte al dileggio e a monito della popolazione).
Didascalia: Maschera apotropaica neritina o beffardo e macabro monito rivolto ai cittadini che per 72 giorni dovettero osservare le teste ciondolanti (dal 24 agosto al 11 ottobre del 1647, racconta negli annali l’abate B. Biscozzi) appese, allo stesso livello degli odierni inserimenti, dei due bassorilievi
Delirante e assurdo strumento di insegnamento per un popolo ormai ‘isolato’ tra i metodi spavaldi e arroganti del Guercio di Puglia e dall’indifferenza del vicario generale Granafei che, a quanto pare non face nulla per opporsi alle crudeltà di cui, le vittime, erano cittadini e soprattutto sacerdoti. Anzi ne diventò colpevole servitore. Infatti, dopo che arrivò notizia dei cruenti episodi succeduti a Nardò, alla Santa Sede (1649 circa) il Granafei provvide a far togliere subito “i monitori” (manifesti) che avvertivano della scomunica che Innocenzo X aveva proclamato per il Duca, il boia e le autorità compiacenti.
Agli ‘oggetti del cerimoniale’, dunque, la parola. Alle ‘forme dell’arte’, quindi, lo spazio. Alle ‘simbologie del rito’, l’architettura, di tutto un centro storico che vale quanto un interno.
Ritengo l’accezione della lettura del centro storico di Nardò, come un ‘interno’, fondamentale per caratterizzare il nostro discorso sulla ‘filologia antiquaria’ e scultorea che viene maggiormente consolidato dalle infinite possibilità della nostra materia prima. L’artigianalità differenziata e diversificata, pretende rispetto e assurge a rango di ‘guida artistica’ del luogo. Un sofisticato meccanismo di traduzione dell’arte, nel gioco sapiente e flessibile della lavorazione della pietra locale. Essa ha generato luoghi preziosi, inseriti tra percorsi già scritti nelle vie, che ancora oggi si presentano come scene allestite tutte da comprendere e ancora interpretare.