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Così il primo violino Daniel (Mark Ivanir), il secondo violino Robert (Philip Seymour Hoffman) e sua moglie, la splendida violista Juliette (Catherine Keener), sono costretti a confrontarsi con il suono che avrà il loro quartetto quando il violoncellista lascerà il suo posto. Faticano però a rendersi conto del sound che attualmente li caratterizza, l'equilibrio, l'armonia che ne ha determinato il successo, il giusto impasto, il ritmo, le scelte artistiche che improvvisamente ritornano loro come un boomerang. L'elemento decisivo è la rottura, l'inattesa e sgradevole dissonanza, l'errore armonico: all'improvviso sembra che gli strumenti vadano ciascuno per conto suo, ignorandosi a vicenda, o - peggio - rinfacciandosi rancorosi il reciproco disturbo. A ciò si aggiunge Alexandra (Imogen Poots), figlia di Robert e Juliette e violinista a sua volta, che prende lezioni da Daniel, entrando con lui in pericolose risonanze.
Il quartetto op. 131 di Beethoven - quello che, secondo la tradizione, l'autore voleva che si suonasse senza pause sino all'ultima nota, fino a perdere l'accordatura degli strumenti, quello che Schubert avrebbe voluto sentire in punto di morte quale ultima musica terrestre - fa da sfondo e tappeto musicale a questo melodramma sofisticato e girato in modo eccellente. La musica che sigilla l'esperienza quartettistica del primo Ottocento fa da controcanto a un'avaria umana dolorisissima, a una dissoluzione che magari vuol assurgere a metafora di una condizione esistenziale, ma riesce a rimanere un caso concreto molto ben configurato e soppesato con una progettualità narrativa validissima, seppure non originale.
Ciò che non va è la tenuta della sceneggiatura (dello stesso Yaron Zilbermann con Seth Grossmann): a disturbare non è neanche l'elemento patetico della senilità implicita nel titolo originale e chiarissimo nello svolgimento (che si perde del tutto nella decadente - e sagace - traduzione italiana), quanto invece i dialoghi, che sono spesso forzati, composti apposta per interpretare una storia che invece ci guadagnerebbe piuttosto a essere raccontata estesamente. L'aspetto curioso è che ciò capita soprattutto in alcuni episodi collaterali, e penso soprattutto alla corsa nel parco di Robert con Pilar, Liraz Charhi, e al dialogo in auto tra Daniel e Alexandra o ancora quello tra quest'ultima e sua madre: questi, che di solito servono a dare veridicità, corpo e sostanza all'idea di base del film, qui invece risultano ridondanti e addirittura in qualche modo stonati.
Il danno maggiore che ne riceve Una fragile armonia è proprio la perdita di fuoco: il lungometraggio non risulta per questo noioso, anzi, ma perde senz'altro leggerezza e rischia addirittura di apparire un po' irrisolto, soffre di vuoti narrativi. Di contro, va sottolineato che la musica non è un alibi qui, bensì proprio la sottotraccia, la struttura fondante, la musa ispiratrice; si sente che c'è un'affinità particolare del regista con il tardo quartetto di Beethoven, una sua lettura sincera. E, se anche non fosse per altre qualità (in primis un'eccellente fotografia), a me già questo sembra un ottimo motivo per vedere Una fragile armonia di Yaron Zilbermann.
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