UNA INNOCUA GENTILEZZA
«Amore, finalmente ce l’ho fatta!» annunciò. Grondava trionfo, e stritolò in un impeto abbracciante la delicata coniuge extra small, sbaciucchiandole con moderata bausciosa lascivia il lobo sinistro, vicino all’oro dell’orecchino d’oro. «Il posto di vicedirettore è mio!» sibilò.
«Oh, tesoro, sono fiera di te!» cinguettò lei guardandolo negli occhi, e imitando, senza consapevolezza, le imbecillesse dei film americani. (Le imbecillesse dei film americani si dicono sempre “fiere” di qualcuno, almeno quattro volte al giorno: del marito, del figlio, del chihuahua… «Come sono fiera, di te!»)
«Cristo, cinque anni ho dovuto stargli dietro, a quel dannato barbagianni».
«Non insultarlo, caro: se alla fine ti ha scelto, è evidente che il Direttore ti stima».
«Non è proprio così: non gli sono mai piaciuto, a quello là, come lui non è mai piaciuto a me. Ma alla fine ha dovuto prendere atto, seppure controvoglia, del mio talento per gli intrallazzi e le porcate. E questa è la serata più bella della mia vita. Quel posto era diventato lo scopo unico della mia esistenza, lo sai».
«Come sono felice, per te, e per noi due. E guarda, un po’ sono anche orgogliosa di aver contribuito, proprio un minuto fa, a rafforzare il gioco di squadra!» gli rivelò spalancando quel suo sorriso di alta odontoiatria Carta Platinum (quasi a zero, la card, in attesa di venire rivitalizzata dal nuovo stipendio).
«Che stai dicendo, cara?» Non era ancora rabbuiato, ma corrugato sì.
«È arrivata una mail del Direttore. Era indirizzata a te, ma io stavo navigando, sai, su quei siti di shopping di lusso, e l’ho vista al volo, e, trattandosi di una gentilezza che non mi costava niente, ho risposto subito».
«Cara, apprezzo le tue buone intenzioni, ma lo sai che non mi piace per niente questo modo di fare. La mia corrispondenza preferisco sbrigarla io. Devo rimettere la password? Così poi ricominciamo con le gelosie e le amanti immaginarie?»
«Oh, ma è stata solo una formalità, e rispondendo subito l’avrò fatto contento. Tranquillo, amore».
«Mmm… Ma che voleva?»
«Chiedeva se per caso avevi delle buone foto sue da usare per la presentazione coi giapponesi, perché lui aveva cancellato per sbaglio dei file e non riusciva più a trovarle nei dischi di backup. Così ho visto che ce n’erano un paio in memoria, nel tuo schedario, e gliele ho mandate».
«Gliele hai… occristo…»
«Ma che succede, tesoro? Che ti prende? Non ti ho mai visto tremare così, e diventare così pallido. Io… Le ho guardate bene, le foto, erano belle, non ci avevi mica fatto nessuno dei tuoi scherzetti porno con photoshop!»
«Le avrai almeno rinominate?»
«Rinomi… ma cos’è adesso ‘sta menata? Di nuovo con queste tue manie da impeccabile perfettino elettronico?» pigolò lei. «Le foto si riconoscono dalla faccia, mica dal numero che gli dai. C’erano quelle due foto bellissime, in cui era venuto così bene, così sorridente, e allora io… è stata solo una gentil…»
«Dovrei ammazzarti, dannazione!» disse lui scuotendola come si scuote un piccolo albero di melo, per far cadere le mele mature, ma così intensamente che sarebbero cadute anche quelle acerbe, e le tettine finte. «Era la più bella serata della mia vita!» La sua voce era, adesso, un composto misto e molto instabile di urlo, gemito e piagnisteo.
«Ma si può sapere che avrei fatto di male?»
«Cos’hai fatto di male? Nascere, tanto per dirne una! Sei una stramaledetta gallina! Mi hai rovinato, mi hai fottuto la carriera!»
«Ma caro…»
«Caro un cazzo! Care sono le pellicce di leopardo! Chi le paga adesso? Devo mandarti a battere ai semafori? Devo andarci io?»
«Perché mi tratti così? Perché diventi così orribile? Ero così fiera di t…»
Scaraventata che ebbe la bottiglia di prosecco contro il muro (così prestigiosa e robusta che invece di infrangersi e sputacchiare spuma aprì una breccia nel cartongesso da mutuo milionario, traendone a livello sonoro un inaspettato “grund-stlokk”, prima di atterrare sulla moquette e rotolare verso la porta d’ingresso, come avesse subodorato che da lì era più conveniente uscire), lui si precipitò nello studio. Frignando, grugnendo e bestemmiando, chiuse la porta a chiave. Il pc era già acceso, e bastò assestare un nervoso scossone al mouse per far riapparire il desktop che il dispositivo salvaschermo aveva oscurato.
C’erano due ultime, debolissime speranze. La prima era trovare nella posta in arrivo una di quelle mail con oggetto “Delivery System ecc” che annunciava il fallimento dell’invio (una delle cose che più lo facevano incazzare, e che invece, quella sera, gli avrebbe evitato il fallimento suo, e l’obbligo del suicidio mediante rivoltellata alla tempia).
Nulla, naturalmente.
La seconda era che, nella memoria dell’archivio fotografico, esistessero altre foto del Direttore di cui s’era dimenticato, e che la moglie avesse allegato un paio di quelle, e non le due che temeva lui.
No, dannazione. C’erano soltanto quelle due. E quelle due erano state inviate.
Quella che lui aveva rinominato testadicazzofiglioditroia.jpg. E quella che, sempre lui, aveva rinominato crepamerda.jpg.
Immaginò il Direttore che le riceveva, prima sbigottito, poi furibondo, poi quasi contento – no, molto contento – di avere un pretesto per riconsiderare la decisione sul nuovo vice. Per poi levargli anche le mansioni che aveva, e sbatterlo in mezzo alla strada, con una vigorosa pedata nel culo. Già: in mezzo alla strada. Perché l’influenza del Direttore, uomo potente e vendicativo se ce n’era uno, di sicuro gli avrebbe precluso qualunque approdo di ripiego lavorativo. Lui sì che stava per essere rinominato: da vicedirettore a vicefilippino al semaforo.
Non rimaneva altro da fare che spararsi.
(Scritto da Zio Scriba)