mostra di Giuseppe De Mattia e Francesco Locane
musiche originali di Egle Sommacal
a cura di Francesca Pergreffi
Inaugurazione Sabato 26 Maggio ore 19
“Una leggera corrispondenza” è il titolo del progetto/mostra del fotografo Giuseppe De Mattia e lo scrittore Francesco Locane.
Egle Sommacal ha creato appositamente per ogni opera delle musiche per chitarra sola (registrate da Marcella Riccardi, Be My Delay ) che accompagnano la lettura e la visione e che possono essere ascoltate tramite lettore mp3 e delle cuffie.
La mostra/progetto sarà visibile a partire dalle ore 19 del 26 Maggio al Meme, in via Giordano Bruno 4, a Carpi.
Segue una mia intervista agli autori del progetto e un contributo di Pier Francesco Frillici
Avete voglia di raccontarmi come nasce il vostro progetto e come si articola?
Tutto nasce da una convivenza in una casa di studenti universitari, anni fa, durata per un paio di anni. Da quando abbiamo lasciato quel tetto comune, per i casi della vita, ci siamo sempre avvicinati e persi di vista subito dopo. Ci siamo sempre “seguiti”, anche se a distanza. La corrispondenza del titolo è nata dall’esigenza di stabilire un contatto, ognuno con il proprio linguaggio. E così è nato questo progetto.
Il tutto parte prima dalla parola scritta? Dall’immagine? O non esiste un prima o un dopo e per coincidenze remote s’incontrano e “nascono” insieme?
Sin dall’inizio ci siamo posti l’assenza di regole e di scadenze: ma, di fatto, sono state le fotografie a “stimolare” il racconto, tranne che in un caso. Questo però non è così importante. Il fatto è che comunque il racconto era poi inteso naturalmente come una “fotografia mancata”, una fotografia accanto alla fotografia. Una fotografia della fotografia. D’altro canto spesso le immagini hanno influenzato la focalizzazione, non necessariamente legata al punto di vista della fotografia: molti dei personaggi dei racconti nascono da uno sguardo attraverso il quale i personaggi stessi sono stati narrati.
L’immagine fotografica nella tavola è collocata prima del testo: è un’indicazione di lettura da parte vostra per lo spettatore?
In genere vogliamo dare la massima libertà di lettura alle opere esposte. Come abbiamo detto, spesso il testo è nato dall’immagine: ecco perché quest’ordine. Ogni racconto nasce dall’individuazione di una sorta di punctum, poi trasformato in spunto per una storia breve che talvolta ha rispecchiato lo stato d’animo che Locane aveva al momento della ricezione. E dal momento della ricezione passava del tempo e quindi il racconto risente anche del trascorrere di questo tempo. Una delle volontà della mostra è dimostrare l’esistenza di un limite della fotografia, che sottostà alla riflessione rapida prima dello scatto. Al contrario, il testo ha tutto il tempo di svilupparsi, dalla ricezione del testo, alla sua stesura, alla sua correzione, ecc. La casualità del testo (in quanto elaborato da un’altra persona rispetto all’immagine) restituisce all’immagine qualcosa che la arricchisce.
Mi colpisce molto l’equilibrio delicato che avete creato in ogni tavola; ogni cosa è necessaria e autonoma al contempo, dialoga con l’altra rimanendo fedele alla propria struttura-natura; ogni elemento concorre discreto e silenzioso per dare una visione unitaria finale … mi ricorda molto una partitura musicale… Esiste, a prescindere dalla natura del progetto, un filo conduttore tra le varie tavole-mondi? Vi è insomma un’altra partitura che orchestra il tutto?
Esistono partiture infinite! Ognuno vede e applica il registro che ritiene migliore per godere la coppia testo/fotografia. Il testo è oggettivo e dice quello che c’è scritto, ma la fotografia no, quella si può leggere come si vuole. Il testo suggerirà una lettura che sfonda i limiti della fotografia, ma ognuno poi può ulteriormente sconfinare dai limiti dell’immagine.
Vi ho visto un’ulteriore “leggera corrispondenza”, un gioco di rimandi infinito dove ogni tavola, così come ogni singolo pezzo scritto e ogni singola immagine fotografica può esistere autonomamente ma non sceglie di farlo, per far parte di un nuovo mondo necessita dell’altra senza snaturarsi. L’uso del passepartout tra immagine fotografica e testo serve a rimarcare sia “una leggera corrispondenza” sia la natura dei differenti medium?
Il passepartout è un elemento che cerca di uniformare e non di dividere i due linguaggi. La finestra ha quasi le stesse dimensioni e il testo è parte integrante dell’opera. È opera stessa, indivisibile dall’immagine. Per accentuare la singolarità del testo, questo è dattiloscritto e quindi si tratta di un unicum, irripetibile nella stessa forma. È più unico dell’immagine che invece è riproducibile all’infinito se solo si volesse. Siamo abituati a vedere il testo abbinato alla fotografia solo come didascalia e quindi come testo esterno alla cornice, qui è il contrario.
La scelta delle cornici di legno naturale sembra riecheggiare una sensazione di calore quasi a voler porre l’accento sul mondo privato che racchiude ogni tavola …
Esattamente. Il legno naturale, senza nessuna vernice, nemmeno trasparente, riporta questi oggetti a una dimensione calda, domestica e familiare, così come questa corrispondenza.
Che colonna sonora suggerite per la visione di Una leggera corrispondenza?
La colonna sonora che il musicista Egle Sommacal ha composto per ogni singola coppia. La corrispondenza del titolo si è rafforzata ulteriormente quando Egle ci ha fatto sentire i brani per la mostra. Giuseppe ed io ci siamo trovati immediatamente d’accordo sull’accoppiamento musica-storia: richiamavamo alla mente la coppia a cui ci riferivamo usando indifferentemente riferimenti alla foto o al testo che la componevano.
Grazie per tutto …
Grazie a voi!
Francesca Pergreffi
Le convergenze parallele
Chi non ha mai visto una fotografia? È una classica domanda retorica. Al giorno d’oggi è senz’altro più difficile scovare il celeberrimo ago nel pagliaio.
Ma se è vero che ciascuno di noi sa riconoscerla all’istante, quanti sono davvero in grado di parlarne?
Beninteso, non di limitarsi a quel rumoroso chiacchierare, tipico di un’era iper-mediatica come la nostra, bensì di affrontare un discorso consapevolmente critico sulla natura di ciò che vediamo.
Di solito, è noto, prevale un’altra tendenza, più conveniente, più opportuna, meno problematica, anche se piena di insidie nascoste.
In generale parlare di fotografia significa procedere con l’identificazione verbale del soggetto percepito: quello che vedo è quello che c’è e quindi ciò di cui unicamente si può parlare; ai nostri occhi l’immagine è totalmente trasparente. E questa accettazione passiva dei “fatti”, almeno in apparenza, consente allo sguardo di risolvere i suoi interrogativi. Si tratta, in fondo, di una scelta pragmatica, di puro buon senso: dare un nome alle cose che appaiono. Va anche bene, ma da sola non basta. Lo faceva notare, a suo tempo, Pierre Bourdieu: se il discorso sulla fotografia continua ad affidarsi alle ovvietà, finisce per ripetersi in maniera meccanica, innescando una catena infinita di stereotipi, credenze preconcette, luoghi comuni che, nella migliore delle ipotesi, andranno ad alimentare mitologie sociali e culturali ancora tollerabili, ma, a certe drammatiche condizioni, potranno degenerare in pericolose ideologie di potere.
Siamo portati a credere, a essere convinti che una fotografia affermi la verità, perché quanto registrato dalla macchina rimane virtualmente presente sulla superficie dell’immagine sotto forma di traccia, di prova autenticante. E che di conseguenza ogni volta che cerchiamo di discutere, commentare, decidere il senso di un’immagine e della sua relativa verità possiamo usare un linguaggio oggettivo, denotativo, inconfutabile.
Purtroppo la questione dell’oggettività nel discorso fotografico è solamente un sospetto infondato. Non può essere essenziale, né tanto meno ontologica, perché si tratta sempre di una forma di mediazione e quindi di trasformazione che non garantisce l’identità fra l’essenza e la percezione.
La parola non è il senso, bensì dà senso, produce il significato. Ecco che a partire dalla didascalia, la forma più elementare di traduzione linguistica dell’immagine, essa dimostra la sua arbitrarietà instancabile, il suo continuo divenire segno.
Senza, ovviamente, ammetterlo; continuando imperterrita ad asserire la cosiddetta verità secondo il referente, quando invece non fa altro che pronunciare una sua verità particolare, in accordo con le istruzioni della lingua.
In altri termini il “testo-didascalia” stabilisce il modo in cui noi dobbiamo leggere le immagini e servirci di esse per raggiungere certi risultati precisi. E quando il senso è unico, restrittivo, normativo, le idee si traducono in pensiero “forte”, dogma ideologico, dispotismi assai pericolosi.
Ci sono, per fortuna, dei momenti e dei luoghi dove l’egemonia del linguaggio e dei codici della comunicazione non hanno il sopravvento; dove la visione del mondo, qualunque sia il mezzo per esprimerla, torna a sorprenderci, a renderci protagonisti. Essi si situano nell’orizzonte dell’esperienza estetica a cui due giovani artisti, quali Giuseppe De Mattia e Francesco Locane, dimostrano di appartenere a pieno titolo. La loro è un’opera duplice, corale, nata e cresciuta mediante una sistematica relazione epistolare. Due lavori separati, certo, disposti lungo binari paralleli, ma al tempo stesso sintonizzati in una relazione costante, fatta di scambi e rinvii reciproci. Uniti e divisi, lontani e vicini, distanti eppure corrispondenti, Locane e De Mattia, l’uno con la parola letteraria l’altro con l’immagine fotografica, stabiliscono fra loro un dialogo appassionato.
Le fotografie di De Mattia presentano tutti i caratteri delle istantanee da taccuino di viaggio o da album di famiglia, con un ampio margine di accidentalità e improvvisazione. Giocano la loro partita decisiva scommettendo su ciò che James Joyce avrebbe chiamato l’epifania del quotidiano: l’atto che posa l’attenzione su ciò che a prima vista sembrerebbe non meritarlo. Ma in quell’attimo l’insignificante, il transitorio si trasforma, con sublime stupore, in una visione unica e irripetibile. Le immagini in questione non hanno pretese estetizzanti, non sono fotogeniche, hanno intenzionalmente rinunciato all’orpello, al trucco inutile e ridondante per arrivare direttamente al nocciolo dentro cui si conserva la genesi dell’evento, dell’ “è stato” che ogni volta si ripropone davanti ai nostri occhi. Vederne riscattato il valore, grazie alla poetica disinvoltura di De Mattia, accresce in noi il senso di immedesimazione, appartenenza e condivisione.
Verso questi appuntamenti imperdibili con il mondo esterno si dirige anche lo sguardo di Francesco Locane. La scrittura ha sempre un leggero ritardo rispetto ai tempi rapidi dell’impressione fotografica, ma questo le consente di affinare la propria sensorialità. Locane avverte che il tempo continuativo della fotografia dilata l’esperienza soggettiva del reale e crea un altro spazio, il “campo cieco” descritto da Barthes, in cui l’immaginazione può durare più a lungo e muoversi con estrema libertà. E difatti pensa di convergere su di esso. Tale spostamento è, tuttavia, un paradossale doppio movimento. Non nomina, non descrive l’oggetto di partenza, non asserisce alcunché sulla sua natura, se non per vie ambigue ed allusive. Perché, se lo facesse, se cioè restasse avvinghiato all’immagine come un’ombra, si perderebbe in uno sterile doppiaggio della superficie visiva e verrebbe riassorbito da essa in una ripetizione senza fine. La fotografia, con un carico ulteriore di elementi denotativi, subirebbe un collasso, essendo già satura di referente, e poi un dissolvimento. Proprio per scongiurare questa eventualità, Locane sceglie un’altra via.
C’è un primo tempo, della lettura, dove apprende i contenuti materiali dell’immagine; e poi c’è un secondo tempo, della scrittura, durante il quale proietta, come in una sorta di eco mentale, una sequenza di immagini derivate, una catena di metafore. Da tale relazione dinamica di congiunzione/disgiunzione tra singola immagine e singolo testo scocca una potente scintilla, si innesca un’effettiva trasformazione retorica, un divaricarsi del senso iniziale, così come resta inscritto nel referente fotografico, che va ad aprirsi su altri spazi e altri luoghi. Locane li ispeziona attraverso molteplici filtri narrativi.
Volendo evitare il calco mimetico “punto a punto” del testo didascalico, ricorre a colpi di immaginazione, a dirottamenti verso i territori impalpabili del desiderio onirico, della suggestione lirica, del frammento di memoria, e anche dell’assai più prosastica trasfigurazione del quotidiano in chiave fantastica, noir, thriller, ecc. Tuttavia non si tratta di un puro esercizio esteriore, di un narcisismo stilistico in risposta al registro piuttosto basso e costante scelto da De Mattia. Al contrario Locane in ogni sua singola occasione di scrittura esegue una verifica differente di cui non è responsabile la fotografia ma la sua soggettività di autore e di individuo che metabolizza un’esperienza. L’evento, la matrice comune dell’immagine e della parola, lo snodo di tutte le corrispondenze e di tutte le suggestioni non parla, non enuncia, né tanto meno comunica un messaggio. La fotografia è opaca e indicibile, sospesa in silenzio, ma, come accade con il punctum secondo Barthes, può percuotere l’emotività profonda dell’individuo, può sconvolgerlo. Essa, come il detonatore di un esplosivo, se sollecitata, può attivare una deflagrazione interiore. Ma per questo ha bisogno di uscire da sé, di evadere dalla fissazione rigorosa dell’inquadratura, di dimenticarsi di essere una realtà immobile e congelata, bensì risorgere a nuova vita. Attraverso la scrittura la fotografia rinasce. Smette di riprodurre e comincia a riprodursi in tante nuove, possibili visioni di realtà.
Dopo Duchamp, Magritte e le ricerche concettuali del secondo dopoguerra questa mostra vuole ritrovare il potere liberatorio della dimensione estetica, la sola per cui la “leggerezza” ha la forza di spezzare i vincoli opprimenti del linguaggio e di infrangere le gerarchie di subordinazione e di controllo intercorse fra immagine e parola in tutta la storia della cultura occidentale. Una volta priva di ormeggi e zavorre la nostra coscienza può felicemente affidarsi alle consonanze affettive, al fascino dell’imprevedibile, al magico gesto evocativo; può consentire al soggetto di essere finalmente differente e di esercitare le proprie istanze creative primarie, così da tornare a guardare il modo non soltanto con l’obbligo di riconoscerlo ed accettarlo così com’è, ma pure con il piacere e la libertà di immaginarlo diverso.
Pier Francesco Frillici
Biografie
Giuseppe De Mattia è nato a Bari nel 1980 e vive tra Bari e Bologna.
Nel settembre del 2009 viene invitato a prendere parte della residenza artistica “Anamnesis Belgium – encounter for cinema, sound & oral tradition” a Westhouter. Negli anni ha collaborato con l’Archivio Fotografico della Cineteca di Bologna, l’associazione dei film di famiglia Home Movies e con Spazio Labo’ – Centro di fotografia di Bologna. Collabora inoltre con diversi artisti, registi, musicisti e architetti. Ha lavorato e lavora come assistente di Marina Ballo Charmet.
È presente in diverse mostre collettive e alcuni suoi lavori fanno parte di collezioni pubbliche e private. Le sue opere vengono pubblicate in riviste e libri.
E’ rappresentato dalla Nowhere Gallery di Milano.
Francesco Locane è nato a Gorizia e vive a Bologna dal 1996. Dal 2000 è autore e conduttore per Radio Città del Capo, sulle cui frequenze al momento conduce Maps, Seconda Visione e Pigiama Party. Ha scritto e pubblicato racconti per diverse case editrici e riviste (Mondadori, Linus, Fernandel, ManifestoLibri, Manni). Ha lavorato come ufficio stampa e redattore di una casa editrice di fumetti. Ha insegnato per una decina d’anni in diverse scuole superiori conducendo seminari di scrittura narrativa, per il cinema, la radio e il teatro.
Egle Sommacal inizia la sua attività musicale negli anni ’80, in Veneto. Si trasferisce a Bologna e, nel 1992, entra a far parte dei Massimo Volume. Con la band incide quattro dischi, fino a quando il gruppo si scioglie.
Tra il 2002 e il 2004 collabora con gli Ulan Bator.
Nel 2008 i Massimo Volume si riuniscono e pubblicano nel 2010 Cattive Abitudini, che convince nuovamente pressoché all’unanimità pubblico e critica.
Nel 2007 pubblica la sua prima prova solista, Legno, un disco strumentale suonato solo con chitarra acustica. Del 2009 è il secondo disco, Tanto Non Arriva: la chitarra di Sommacal questa volta si accompagna a una sezione di fiati, tra sax, trombe e tromboni.
Nel 2008 incide le musiche (insieme a Federico Oppi, Stefano Pilia e Paul Pieretto) per Pontiac, storia di una rivolta, un testo di Wu Ming 2, successivamente pubblicato in digitale con illustrazioni di Giuseppe Camuncoli e Stefano Landini. Nel 2010 l’unione tra i cinque dà vita a un altro spettacolo-concerto-reading, Razza partigiana.
Orari
da Lun a Dom 17-20
Sab anche 9.30-13,
Giov chiuso
Collegamenti
Giuseppe De Mattia
Francesco Locane
Egle Sommacal
Contatti
Francesca Pergreffi – [email protected]