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Una lettera-risposta importante

Creato il 12 agosto 2013 da Www.marsala.it @@il_volatore

Gentile Eugenio Scalfari,
La ringrazio dell’attenzione posta alla mia risposta. L’attenzione che lei rivolge alla figura di Gesù e le conclusioni laiche che trae dalla lettura attenta dei Vangeli mi stimolano a continuare nel dialogo. In particolare mi ha colpito l’immagine dello sradicato. Alla Facoltà Valdese di Teologia studiavamo il ruolo di “outsider” narrativamente ricoperto spesso da Gesù e trovo che “sradicato” renda bene il concetto.

Prima di arrivare alla domanda che mi pone, vorrei chiarire il passaggio sulle “sette”. Appartengo a una minoranza sin da bambino, con tutte le scomodità del caso: giustificare a scuola la propria diversità, spiegare cose che nessun altro era chiamato a spiegare. Fortunatamente i miei figli sono nati in un’Italia più plurale, grazie all’immigrazione di cristiani ortodossi e islamici. Ad ogni modo, da grandi si apprezza la possibilità avuta di crescere in una minoranza, in qualche maniera ci si sente più preparati ad affrontare la vita e, forse, non le avrei scritto se non fossi cresciuto così. Restano tuttavia delle ferite, dei termini che non vanno proprio giù e, per i protestanti, il peggiore credo sia “setta”. È vero che siamo frammentati in diverse chiese. Tuttavia, questa è una caratteristica anche del cattolicesimo: in Italia quando parliamo della “Chiesa” viene in mente un monolito fatto di dogmi e gerarchia. In realtà il cattolicesimo è molto più variopinto di quanto non si pensi e ci sono anime che hanno tra loro un atteggiamento invero settario: non si parlano, non collaborano, hanno diversi partner ecumenici, non si incontrano. Detto questo, la parola “setta” in ambito religioso è dispregiativo, come l’inglese “cult”: le sette sono gruppi che vivono separati dal mondo, spesso in balia di un leader carismatico che fa le veci di Dio. Penso ai Davidiani della tragedia di Waco o agli adepti dell’Heavensgate che si suicidarono convinti che un’astronave aliena fosse pronta a portare le loro anime in un mondo migliore. Ora, se un giornalista della BBC definisse “cult” la chiesa cattolica, in Gran Bretagna sarebbe uno scandalo. In Italia invece non è un problema parlare di sette protestanti. Per carità, non è l’anomalia italiana più grave, ma è interessante notare che neanche la chiesa cattolica, che pur ci non riconosce piena ecclesialità, osi chiamarci “setta”.

Una lettera-risposta importante
Sul ruolo della Chiesa di Cristo, abbiamo una diversa comprensione dei relativi passi del Nuovo Testamento. Cristo non commissiona la Chiesa a Pietro, ma la fonda sulla sua fede. Quale fede? La fede in Cristo («Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente»). Sul potere delle chiavi (quello di sciogliere e legare) noi protestanti contestiamo alla Chiesa cattolica di averlo trasformato in un potere secolare. Lutero infatti teneva in gran conto il potere di sciogliere e legare e sosteneva che fosse dato ad ogni cristiano che ascoltava la confessione del fratello. Il protestantesimo in seguito ha abbandonato la pratica della confessione privata. Tuttavia non ha distrutto il ruolo della Chiesa, ma lo ha trasformato: la Chiesa non è mediatrice. L’unico mediatore è Cristo. La Chiesa è l’assemblea dei credenti, la Communio Sanctorum.

Ma arrivo alla domanda. La domanda che mi pone è difficilissima. Se «nell’umanità che conosciamo dopo duemila anni da allora l’amore per sé sia diminuito e quello per gli altri aumentato?» In altre parole, mi chiede se il cristianesimo sia servito a migliorare il mondo. Non lo so. Non è scomparso certamente l’amore egoista, quello alla base della violenza, descritto da Oscar Wilde nel carcere dov’era stato sepolto dalla sua patria omofoba: «Yet each man kills the thing he loves» («Eppure ogni uomo uccide la cosa che ama»). Ci sono però esperienze laiche che hanno migliorato il mondo. Penso, ad esempio, a ciò che caratterizza maggiormente la nostra epoca, quella che Rita Levi Montalcini definì la più importante invenzione del XX secolo: Internet. I suoi inventori, Tim Berners-Lee e Vint Cerf, decisero di non brevettarlo, ma di regalarlo al mondo. Certo, hanno ricevuto onore e gloria, ma, da un punto di vista egoistico, è nulla rispetto ai soldi che avrebbero potuto accumulare. Fatto apparentemente non collegato: nel 2006 un’influenza aviaria stava decimando la fonte di sostenamento di milioni di africani. Una ricercatrice italiana, Ilaria Capua, isola il virus e decide di non brevettare la sua scoperta, come suggerito dall’OMS, ma di condividerla in rete per trovare prima il rimedio: prima viene la vita delle persone coinvolte, non i soldi e il prestigio. E sappiamo quanto poco sono remunerati i ricercatori italiani. Da un gesto di amore ne è nato un altro. La scelta dei fondatori del Web ha creato le condizioni per un’altra scelta nobile.
In altre parole, l’amore per il prossimo nasce dall’amore per il prossimo. Pertanto lo stesso si può dire di chi ha scelto di amare il prossimo a discapito del proprio tornaconto proprio in virtù del gesto supremo di Cristo. L’amore nasce dall’amore.
Certo, parliamo di amore in senso laico, umanista. E va anche bene così. Ho trovato interessante che mi abbia chiesto dell’amore, parlando di Dio. Per Ingmar Bergman il silenzio di Dio era dato dall’incapacità degli esseri umani di amarsi.

In conclusione, non ho l’ambizione di convincerla che Dio non sia una consolatoria invenzione della nostra mente. Immagino che neanche il grande Carlo Maria Martini avesse questa ambizione. Però mi stimola l’aggettivo “consolatoria”. Di fronte a un lutto recente ho trovato molta consolazione nella fede e nell’amore di chi mi circondava, ma non avevo mai pensato alla fede come consolatoria, quanto piuttosto come fonte di speranza. Per un (quasi) giovane come me è importante sperare che ci sarà un futuro possibilmente migliore. L’Italia sembra un paese senza futuro, avvitato su se stesso. La fede è in parte consolatoria: lo dice anche il Catechismo di Heidelberg. Per quanto mi riguarda, però, non è illusoria. È motore di vita, è dono di una prospettiva, la prospettiva dell’eternità. In uno dei suoi discorsi più famosi, Martin Luther King disse di ritrovarsi come Mosè: non avrebbe calpestato la Terra promessa, non avrebbe visto la fine delle discriminazioni razziali in America, ma allo stesso tempo Dio lo aveva fatto salire sulla cima della montagna e gliel’aveva mostrata. Il pastore King ha trovato certamente consolazione. Ma non si era illuso.

Con profonda stima,
Peter Ciaccio


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