“Una levatrice a New York” è un romanzo scritto da Kate Manning con BEAT Edizioni nel 2014.
Ci fu un tempo, senza memoria, in cui le donne erano Dee. Un tempo, che si declina in un passato senza date, e che si tramanda nella poesia del mito.
Ci fu un tempo, quando la Storia divenne contingente, in cui le donne erano Sacerdotesse. Fu un’epoca lunga, impregnata di balsami e incenso, scandita da templi investiti dal Sole o da anfratti celati dalle tenebre, in cui le prescelte divenivano figlie mortali degli esseri divini che erano stati ventri nell’anno senza numero, quando l’Eterno sedeva alle loro mense e giaceva nei loro letti, rendendole madri benedette.
Ci fu un’epoca in cui le donne erano Streghe.
Iniziò subdolamente, con un abbraccio che si tradusse in un graffio, si allargò come macchia di sangue, olio purpureo per rianimare il fuoco delle pire o per grondare, copioso, dalle mani dei giudici e degli assassini.
Le Streghe sono le donne che turbano i sogni degli uomini che temono il proprio peccato, che lo sentono, la notte, contorcersi diabolico, nei propri ventri che mai daranno vita, ma possono generare morte con ogni membro del proprio corpo, anche senza sporcarlo delle carni femminee, ma puntando un indice o impugnando una penna.
Le Streghe sono uomini: proiezioni di essi, delle loro paure, delle oscurità inconsce che ne fendono la condotta integerrima, degli impulsi che traducono in violenza e non in vicendevole e sano istinto di piacere.
Una levatrice a New York, ambientato nella seconda metà dell’Ottocento, non racconta di gatti neri e inquisitori, ma di magiche polveri, ottenute da erbe e da prodotti galenici, che possono assolvere ad un ruolo contraccettivo o perfino scatenare un aborto prematuro. Ma, se la pozione non sortisce effetto, saranno necessari ferri e lame ricurve per raschiare una vita innocente e con essa, l’anima di due donne, quella di chi subisce quanto quella di chi esegue.
Non solo di questo, tuttavia, si occupava Madame, personaggio romanzesco, frutto della fantasia della scrittrice, Kate Manning, ispirato, però, a documenti reali.
La levatrice, che, da bambina, aveva visto sua madre spirare dopo aver dato alla luce l’ultimogenita, aiutava a partorire, sia le gentildonne e che le povere, praticando il proprio lavoro con competenza e solerzia, affinché la morte non terminasse il compito, regalando una lapide invece che un giaciglio e una culla.
Fu processata ed incriminata, però, perché accolse le richieste di prostitute destinate a morire di freddo e fame, se avessero avuto un altro figlio; i pianti di bambine violentate senza sosta dai tutori; la disperazione di quante, a causa di una gravidanza frutto del seme di un amante, sarebbero state reiette dal marito che le maltrattava e dalla famiglia che le ignorava.
Ha ucciso, Madame, senza sentirsi il cuore leggero, per non leggere, in articoli mai editi, l’annuncio dell’ennesima donna morta procurandosi, da sola, quella che era definita “la liberazione dall’ostruzione”: ossia ingurgitando soda caustica, gettandosi dalle scale o facendo ausilio di uncinetti nati per creare copertine bianche.
E non lo ha fatto da sola.
Lo ha fatto anche l’ubriaco, incurante di una moglie sfinita; il mostro che ghermiva le bambine trascinandole dietro i cespugli; il gentiluomo che, per qualche moneta, sfogava i suoi istinti su una donna che non possedeva nemmeno un tetto; il padre che allontanava la figlia con il ventre colmo di vergogna destinandola ad una vita per la strada.
Lo ha fatto anche il delatore con la Bibbia fra le mani e il giudice con il codice stampato nella mente, poiché incapaci di dare un nome non indecente alla propria passione d’amore, che solo nel rispetto trova la bellezza.
Non è un libro facile.
Va letto sospendendo il giudizio.
Va letto per capire, attraverso veritieri annunci di giornale e atti processuali, cosa è accaduto in anni lontani a donne e a bambini con vite senza valore.
Va letto per ricordarci quanto vale, invece, la vita.
Emma Fenu