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Lo scrittore reggiano IVAN LEVRINI è stato ospite di Caffè Letterario mercoledì 12 dicembre 2011, quando ha presentato la sua raccolta di racconti “Semplici svolte del destino” edito da QuiEdit. Se esistesse il gioco del riassunto, e si praticasse una variante estrema in cui spingere la condensazione del discorso fino a un limite oltre il quale scompare il dicibile, e in gioco ci fosse un giudizio da dare sulla civiltà romagnola, allora in questo gioco del riassunto basterebbe una sola parola per esprimere l’essenziale, basterebbe dire che sono degli esagerati. Proprio così, il carattere tipico del romagnolo è l’esagerazione. Qualcuno potrebbe obiettare denunciando l’errore: qui si prende la parte per il tutto, direbbero, una sineddoche di spazio minore, visto che l’esagerazione è un tipico carattere italico. Verissimo, l’esagerazione è diffusa in tutta Italia. Ad esempio i reggiani primeggiano nell’esagerazione politica. Lo sanno tutti che ai tempi del Partito comunista la provincia più comunista d’Italia era quella di Reggio Emilia. E non sono da meno nell’enfasi verbale: un’esagerazione portata sempre all’iperbole, come attesta la stampa cittadina che ricalca lo spirito del lettore. Furto al bar della scuola calcio di San Pellegrino: rubati cinque cornetti Algida; ventinovenne in lite col marito si getta dalla finestra del piano terra; casalinga senza precedenti penali ritira premio al supermercato Conad con carta punti rubata: denunciata per ricettazione. E naturalmente un po’ di neve diventa una tormenta polare, due settimane senza pioggia fanno scattare l’allarme siccità e una mattina ventosa si trasforma in una devastante bufera. Poi c’è l’uso di certi sostantivi che servono a darsi importanza. Il rigagnolo d’acqua che scorre in città è asciutto sei mesi l’anno ma lo chiamano fiume: il fiume Crostolo di Reggio Emilia. E che dire del grattacielo? un edificio di dodici piani contando anche l’ammezzato. Inoltre, per ostentare grandezze non solo verbali, i reggiani sono capaci di tutto. Anni fa avevano scoperto la risorsa del maiale, e così Reggio Emilia era diventata la provincia d’Italia a più alta concentrazione suina. Un milione e duecento mila maiali, che tradotto in salumi voleva dire sei prosciutti per abitante, dodici fiocchetti, decine di coppe e salami, ciccioli a chili, e un sovrappiù di liquame a tonnellate, che non varrà come materia prima per produrre insaccati - dicevano a Reggio - ma come fonte di energia non era certo meno prezioso. In tempi più recenti hanno poi strafatto in architettura, erigendo una grandiosa costruzione ad arcate che s’intravede a quattro chilometri dal casello autostradale. Sono i famosi ponti di Calatrava, sorretti da una struttura a cavi d’acciaio che ricorda la cresta dello stegosauro. Così, adesso, per chi viaggia autostrada, il biglietto da visita con cui si presenta Reggio Emilia non è più la puzza di maiale. Eppure, tutte queste esagerazioni non sono neanche da paragonare a quelle romagnole. Gli esempi si sprecano. Si consideri il mare. I romagnoli hanno il litorale sabbioso più lungo d’Italia. Un dono di natura, si dirà, d’accordo, ma quello che hanno costruito attorno non è opera della natura. I centocinquanta chilometri di strutture alberghiere che sorgono sul litorale, e che garantiscono la maggiore ricezione turistica d’Italia, li hanno eretti i romagnoli. Alberghi su alberghi, alberghi a perdita d’occhio, forse un primato europeo, non solo italiano, perché i romagnoli, quando si mettono un’idea in testa, non li ferma nessuno. S’è visto anche con le due ruote, biciclette o motociclette che siano. Con le quattro ruote è diverso. Chissà perché. Forse le trovano troppo stabili, o meno adatte ad assaporare la brezza marina, il vento garbino. Ma per le due ruote vanno in delirio. Se si tratta di pedalare, imparano prima ancora che a camminare. Per questo fioriscono i fenomeni. Stessa cosa con la moto. Ingranaggi, pulegge, rumori e scarichi del motore a scoppio: un’ebbrezza che al romagnolo evoca il godimento estivo che si prova durante le notti passate sui lettini vicino al bagnasciuga, con le straniere e la musica da ballo che arriva da lontano. E’ questo il segreto dei romagnoli: se si appassionano a qualcosa, sono ardori senza mezze misure, una sfrenatezza dionisiaca. E non conta il campo d’applicazione. Una volta che sono catturati dall’impeto non c’è nulla che possa trattenerli. Sono presi dal ghiribizzo della poesia? Eccoli a poetare a perdifiato, come Giovanni Pascoli, romagnolo di San Mauro. Un esagerato che pur di poetare usava il latino. Chiunque altro, al di fuori della Romagna, si sarebbe accontentato di scrivere poesie nella lingua materna, invece in Romagna è diverso. Se uno fa tanto di lasciarsi andare al pallino della poesia, è capace di poetare a più non posso, anche nelle lingue morte. Sarebbero capaci di imparare l’etrusco. Pascoli s’era tanto buttato sul latino che lo usava per ogni cosa, prendere appunti, annotare la lista della spesa, imprecare, anche i pensieri gli scappavano in latino. Se incontrava un amico gli scappava detto quo vadis, e non per esibizionismo. E’ vero, gli amici non capivano – un pataca, dicevano – però in compenso, vinceva i concorsi internazionali di poesia latina: tredici partecipazioni, tredici vittorie, tanto che se Valentino Rossi è stato il dominatore del Gran Premio delle Cinquecento, allora Giovanni Pascoli è stato il dominatore del Certamen latino di Amsterdam. La poesia era tutto per Pascoli, e quando languiva l’ispirazione non si dava per vinto, la cercava ovunque, anche nel sangiovese, fino all’ultimo goccio, pur di inseguire il risultato poetico. Pertanto, se è vero che Valentino Rossi rischia la vita sulle piste del motomondiale, è altrettanto vero che Giovanni Pascoli la rischiava ai tavoli delle osterie. E tanto per rimanere a tema, dov’è nato Dino Campana? A Marradi, sull’Appennino tosco-romagnolo. Dov’è nato Marino Moretti? E’ nato a Cesenatico. E come mai un paese come Santarcangelo, che non è certo una grande metropoli, ha dato i natali a poeti del calibro di Nino Perdetti, Antonio Guerra detto Tonino e Raffaello Baldini? Un poeta, questo Baldini, che ha osato come nessun’altro, in poesia, e nessuna professoressa di scuola avrà mai il coraggio di leggere poesie come Cuntantès, ossia Contentarsi, oppure la leggerebbe saltando il primo verso, quello che dice: Mè l’è trent’an ch’a chégh cumè un arloz. Per concludere non c’è da stupirsi se questa comune attitudine ad esagerare abbia generato una predisposizione affettiva fra reggiani e romagnoli. Un reggiano si sente subito a proprio agio, in Romagna. Un reggiano arriva a Lugo, ad esempio, dove lo hanno invitato a parlare di un suo libro, e anche se non conosce nessuno si sente a casa. Poi lo scrittore reggiano si siede al tavolo davanti al pubblico accanto a un presentatore romagnolo che introduce la serata con parole affettuose. E quando gli viene chiesto di leggere qualcosa del suo libro, lui si affida a un passo umoristico. Si tratta di una mossa rischiosa, potrebbe essere controproducente, perché se la lettura non generasse nessun effetto, se non fosse colto il lato comico del passo e tutti rimanessero in silenzio, lo scrittore reggiano sarebbe preso dallo sconforto. Sarebbe un segno di freddezza che la tipica esagerazione reggiana porterebbe a interpretare come stroncatura. Lo scrittore cadrebbe in balia di una cupa disperazione, gli verrebbe da pensare che avrebbe fatto meglio a non muoversi da Reggio Emilia, e forse avrebbe fatto meglio a non scriverlo nemmeno, il libro. Per questo inizia la lettura con un tremolio alla voce. Ha paura di sbagliare intonazione, di sbagliare i tempi, di andare a sbattere contro il muro del silenzio. Invece, nonostante lo scrittore reggiano abbia iniziato col cuore in gola, dopo poche righe il pubblico romagnolo presente in sala comincia a ribollire. Sono scoppi improvvisi che provengono qui e là, contagiando altre zone della sala. La serietà iniziale si scioglie e lui avverte che cresce la temperatura. Sono risate vere, emissioni di suoni pieni, rumorosi, non sorrisi contenuti. A forza di ridere, certe signore eleganti si devono trattenere, altre invece si lasciano andare, ed è un piacere vederle ondeggiare. Significa che il pubblico romagnolo ha colto al volo l’umorismo reggiano, che poi è un’altra variante della tipica esagerazione. E ridere all’unisono non è cosa da poco, è uno dei più chiari indizi di affinità spirituale, di cui andrebbe tenuto conto nella vita, almeno al momento di sposarsi, visto che l’umorismo permane mentre la bellezza sfiorisce. Ma allora, considerando il carattere che accomuna reggiani e romagnoli, perché non costruire un gran ponte per collegare direttamente Reggio Emilia e la Romagna? e permettere il transito di un treno a velocità esagerata? Partire da Reggio e raggiungere Lugo in pochi minuti. Un treno che stabilirebbe un primato mondiale e varrebbe come infrastruttura per risollevare l’economia. Varrebbe anche come via di fuga, perché nonostante il costume incline all’esagerazione scomposta, nel reggiano cominciano a manifestarsi certe avvisaglie di cambiamento, forse provenienti dalle terre a Nord del fiume Po. Si tratta della tendenza a un innaturale senso del decoro, dell’ordine, che si avverte nelle piazze e nei viali, nei giardinetti, negli uffici comunali, perfino nelle sedi dell’INPS o della Direzione provinciale del tesoro, dove in passato regnava un confortevole ambiente disadorno. Si sta diffondendo il gusto per i muri intonacati di fresco, per i colori uniformi, per le siepi fiorite, come se fossimo in Svizzera. Dilaga la cultura dell’arredo urbano. Si vorrebbe una città disposta come un salotto di casa, con l’effetto tipico dei salotti ben tenuti che non si usano per non sporcarli, cioè si va altrove. Non si vedono quasi più le auto infangate, come se non piovesse mai, i gatti randagi sono scomparsi, i cani al guinzaglio sono addestrati ad abbaiare sottovoce, qualcuno propone di multare i ciclisti con la bicicletta che cigola, e sanzionare chi mangia un panino camminando, e poi l’arresto immediato per chi si mette le dita nel naso. Tutto dev’essere misurato, regolato, normalizzato. E’ lo spirito del perimetro funerario che si fa avanti in città: luoghi di vita da organizzare come luoghi della sepoltura. Tutto suddiviso in lotti e aiuole dove si fa bella figura quando il marmo è tirato a lucido. Rimuovere lo sporco, il rumore, il disordine, come se la vita avesse in sé qualcosa di lievemente vergognoso e il canone dell’esistenza dovesse regolarsi sul canone della non esistenza. Forse è una reazione all’angoscia di morte che fa abbracciare l’ideale di un mondo dove non vi sia più scambio termico fra gli oggetti dell’universo, e tutto permanga in uno stato di immobilità. Atteggiamenti che se si diffondessero ulteriormente farebbero proprio venir voglia di scappare, finché si è in tempo, verso la Romagna. di Ivan Levrini
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