Una nomina a Mrs. PESC può cambiare davvero la politica estera europea?

Creato il 01 settembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Davide Vittori

Nel corso del Consiglio Europeo straordinario 30 agosto dedicato alle maggiori crisi internazionali e alla nomina dei vertici dell’Unione Europea, il Ministro degli Esteri italiano Federica Mogherini è stata scelta per ricoprire l’incarico di capo della Diplomazia europea. Succedendo ufficialmente dal 1° novembre a Catherine Ashton, la titolare della Farnesina è riuscita a vincere anche lo scetticismo di alcuni Paesi del Centro e dell’Est Europa che ne giudicavano la mancanza di esperienza e la presunta vicinanza alla Russia e che per questo erano maggiormente favorevoli ad una figura come il Ministro degli Esteri polacco, Radoslaw Sikorski, o ancora come l’attuale Commissario alla Cooperazione Internazionale, gli Aiuti Umanitari e la Risposta alle Crisi, la bulgara Kristalina Georgieva. Al di là della persona prescelta, la nomina di “Mrs. PESC” può davvero essere decisiva per il futuro della proiezione esterna dell’UE?

Dopo l’istituzione, nel 1999, dell’ Alto Rappresentante dell’Unione Europea per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza Comune, con il Trattato di Lisbona del 2009 e la creazione dello European External Action Service (EEAS), si prospettava una maggior coerenza e unità d’azione tra gli Stati membri con l’Alto Rappresentante che peraltro veniva investito formalmente del diritto di iniziativa. Questo diritto, tuttavia, è stato diluito attraverso la possibilità degli Stati e della Commissione di influenzare e modificare l’agenda-setting, tanto che nessuna istituzione europea detiene ad oggi un monopolio della Politica Estera di Sicurezza Comune (PESC) [1], né è possibile asserire che vi sia un controllo ex-ante o ex-post dell’azione dell’EEAS da parte del Parlamento Europeo, che rimane sostanzialmente estraneo alla formulazione della politica estera in Europa: l’accountability dell’EEAS e la possibilità di valutazione delle politiche intraprese da parte del Parlamento rimangono – e rimarranno – marginali, fintanto che la PESC avrà nell’intergovernamentalismo il cardine della sua azione [2].

Se si esclude l’attivismo “storico” europeo in Ucraina, frutto di una Politica di Vicinato che rimane una priorità strategica per l’Unione e nel quale ancora permangono diversi distinguo tra i vari Stati membri sull’approccio da tenere nei confronti del nuovo governo di Kiev, [3] la situazione in altri scenari è ben diversa. Tra questi vi è sicuramente il Medio Oriente e gli eventi che l’hanno caratterizzato nell’ultimo triennio, in particolare in Libia, Egitto, Siria, Iraq, Iran e non ultimo nella crisi di Gaza. La politica dell’UE nel Mediterraneo allargato è stata storicamente sempre relegata ai margini rispetto alle priorità di integrazione dell’Europa Centro-Orientale: l’allargamento ad Est dell’Unione dalla fine della Guerra Fredda ha mantenuto una priorità strategica rispetto al Processo di Barcellona e al successivo tentativo avanzato da Sarkozy con l’Unione per il Mediterraneo. E se i problemi legati ai risultati raggiunti [4] – riferiti in particolare al tentativo di creare un circolo virtuoso che combinasse aiuti allo sviluppo, liberalizzazione economica e liberalizzazione politica – hanno certamente un peso inferiore rispetto ai successi nell’integrazione e democratizzazione dei Paesi post-sovietici, le strategie europee perseguite negli scenari politici della cosiddetta Primavera Araba mostrano, di converso, un mancato coordinamento e una scarsa incisività.

Senza dover necessariamente ripercorrere la storia recente della disintegrazione della statualità libica, della rivoluzione e della contro-rivoluzione in Egitto e della guerra civile siriana (e le sue conseguenze sullo scenario iracheno di oggigiorno), si può affermare in tutti e tre i casi che le Istituzioni europee sono state pressoché inermi, sia rispetto agli attori extra-europei sia rispetto agli Stati membri, rimasti sino ad ora i principali protagonisti della diplomazia europea.

Nel caso libico, all’attivismo inglese e a quello francese, rispondente peraltro a logiche del rally-around-the-flag, l’Unione Europea non ha saputo trovare un compromesso con posizioni dall’inizio più caute (e solo successivamente allineate al duo franco-inglese) come quelle italiane o apertamente scettiche come quella tedesca. In Egitto, l’attivismo dell’Alto Rappresentante si è registrato solo con i tentativi di mediare la scarcerazione di Mursi, mentre al-Sisi è tornato ad essere l’unico attore mediorientale realmente incisivo nell’ambito dell’ultima crisi nella Striscia di Gaza, capace di tentare e di riuscire – seppure con difficoltà – in una mediazione tra Hamas e il governo israeliano. Le critiche relative all’elezione del generale egiziano hanno lasciato il campo alla strategicità dell’Egitto nel conflitto israelo-palestinese. Va dato atto, in ogni caso, all’EEAS di aver contribuito a fare pressioni perché la sorte di Mursi non fosse tramutata in un diverso destino. In Siria, al contrario, il pressing anglo-francese del Presidente Hollande e del Premier David Cameron per un maggior interventismo europeo, si è scontrato con il voto del Parlamento inglese contrario all’attacco, mentre tanto l’Italia quanto la Germania sono apparse sin da subito restie verso qualsiasi coinvolgimento in un conflitto armato: anche in questo caso l’Alto Rappresentante nulla ha potuto se non certificare le differenti posizioni, allineatesi solo quando oltre al “No” inglese si era sommato quello statunitense. Il caso iraniano, infine, è emblematico della costruzione politica europea: il ruolo di honest broker europeo tra Iran e Stati Uniti è divenuto tale solo dopo l’inizio dei colloqui EU3+3 (ossia Francia, Regno Unito e Germania – con la sorprendente esclusione di un partner di primo livello di Teheran come l’Italia [5] – più gli altri membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, Russia, Cina e Stati Uniti) e senza che questo pregiudicasse o menomasse la posizione degli Stati europei coinvolti. Come sostiene Rynning [6], è improbabile che l’UE abbia mai avuto un sostegno da parte della popolazione europea per intraprendere una strategic confrontations con l’Iran, poiché queste richiedano “forti e credibili autorità politiche”, difficilmente riscontrabili nelle divisioni che si registrano a Bruxelles; tuttavia, l’elezione di Rouhani e il comune timore per l’avanzata dell’ISIS in Iraq dovrebbe portare l’Unione ad avere un ruolo più pro-attivo nei confronti di Teheran, non limitato alle trattative sul nucleare. Che lo si voglia riconoscere o meno, che lo accettino o meno i Paesi del Golfo, l’Iran rimane un player di enorme importanza nello scacchiere mediorientale con cui la diplomazia europea dovrebbe aprire un confronto a tutto tondo. Ne avrà la forza il nuovo Alto Rappresentante?

Se l’intergovernamentalismo rimarrà il cardine dell’azione esterna dell’Unione Europea e senza un chiaro mandato, magari anche limitato nelle aree di policy, è difficile che Mrs. PESC possa incidere significativamente sulla proiezione europea.

Certamente, le cancellerie europee oggigiorno sono focalizzate su altre temi, in particolare quelli economico-finanziari, che sono stati un leit-motiv pan-europeo nella recente campagna elettorale. Tuttavia, la politica estera non ha perso la sua rilevanza. È compito degli Stati membri (e della loro volontà politica) dimostrare di voler agire come un attore unitario con un’unica voce per lo meno in alcune materie di politica internazionale. All’EEAS si chiedeva, alla sua nascita, di poter essere un agenda-setter per l’Europa [7] e l’Alto Rappresentante ne sarebbe stato il cardine. Finora così non è stato e, come spesso accade, il contesto internazionale impone la propria agenda a un attore riluttante. Questo però non significa che non si possa provare ad esprimere una politica comune europea non limitata ai comunicati stampa di condanna di questo o quell’accidente. Questo sarà il compito del Ministro Mogherini nei prossimi cinque anni.

* Davide Vittori è Dottore in Relazioni Internazionali (Università di Bologna)

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[1] Smith M.E, (2013), The European External Action Service and the security–development nexus: organizing for effectiveness or incoherence?, Journal of European Public Policy, 20(9), 1299-1315.

[2] Raube, Kolja (2013), Democratic accountability and EU governance: the EEAS and the role of the European Parliament, Paper prepared for the conference “European Diplomacy post-Westphalia and the European External Action Service: Taking Stock and Looking Forward”, London School of Economics and Political Science (LSE), pp. 17.

[3] Si vedano a tal proposito gli approfondimenti sulla crisi in Ucraina a cura dell’Osservatorio di Politica Internazionale di BloGlobal.

[4]Si vedano a tal proposito: Fernández A.H. e Youngs R., (2005), Proceso de Barcelona: balance de una década de Asociación Euromediterránea, Real Instituto Elcano, ARI n. 137. Euromesco Report (2005), Towards a Euro-Mediterranean Community of Democratic States, EuroMeSCo Secretariat at the IEEI, Lisbona. Barbé E. e Soler i Lecha, E., (2005), Barcelona + 10: Spain’s Relaunch of the euro‐Mediterranean partnership, The International Spectator: Italian Journal of International Affairs, Vol.40, n-2, pp.85-98.

[5] Vittori D. (2014), Le relazioni italo-iraniane in prospettiva storica. Paper parzialmente inedito.

[6] Rynning, S., (2008), Europe’s Emergent but Weak Strategic Culture: The Case of the EU, Iran, and Nuclear Weapons Diplomacy, in Engelbrekt, K. & Hallenberg, J. (eds.), The European Union and Strategy: An Emerging Actor,  London,  Heinemann, p. 94-110.

[7] Sul ruolo dell’EEAS come agenda-setter si veda Vanhoonacker S. e Pomorska K., (2013), The European External Action Service and agenda-setting in European foreign policy,  Journal of European Public Policy, 20:9, 1316-1331.

Photo credits: Reuters/Yves Herman

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