Una notte all’opera
di Iannozzi Giuseppe aka King Lear
[ Questo racconto è stato pubblicato per la prima volta su Lib(e)ro Libro, lit-blog curato da Katia Ciarrocchi.
i.g. ]
La Morte porta addosso un odore osceno, di merda. Non è lieto parlar di queste cose… ‘di queste cose così intime’ mi converrebbe forse dire; e però è vero che il trapasso è accompagnato da un inevitabile rilassamento dello sfintere. Per colpa della mia professione conosco sin troppo bene la Morte e posso assicurare che nel suo corpo non c’è alcunché di poetico né di straordinario, come certi scrittorucoli da salotto vorrebbero invece farci credere nel vano tentativo d’apparire uomini di carattere. Dicevo dunque che la professione di medico legale mi ha abituato a frequentare più cadaveri che persone vive. Le ore in obitorio volano, coi morti ci parlo, ci ragiono anche. Loro ascoltano sempre osservando un inumano silenzio.Non dico che sia il lavoro più bello che possa capitare a un tipo ambizioso qual ero io; della mia sfrontata giovinezza ho un ricordo vago, e non nascondo che di tanto in tanto dei repentini ricordi vengono a galla costringendomi a guardarmi in uno specchio di vergogna. Quando accade subito distolgo lo sguardo dalla giovane immagine di me che mi si para davanti. Ero ambizioso e credevo che la nobiltà dell’uomo risiedesse nello spirito. In questo credevo. Ero un illuso, lo spirito è meno d’un fantasma, a malapena è illusione per i giovani, nulla più di questo. Oggi mi basta incontrare una persona per strada per capire quanto ancora gli resta prima che la Grande Falciatrice lo abbia in seno.
Sono vecchio ma non abbastanza. So che vivrò molto a lungo, diventerò una vecchia scimmia incartapecorita e scorbutica. Dovrei essere felice. Così non è però. Mia consolazione è parlare ai muti cadaveri che ogni giorno attendono le mie cure. Prima o poi, signore e signori che ho visto magari di sfuggita passeggiare lungo le vie di T. vengono da me in fila indiana, chi per via d’un ictus o d’un infarto, chi per via d’un incidente. La gente ce l’ha davanti agl’occhi la propria fine, tutti i santi giorni, peccato che non sia in grado di vederla. Io invece la vedo bene, non sbaglio mai. Mai.
L’altra sera mi trovano a teatro per la prima della Tosca. Ho sempre nutrito un debole per l’opera, soprattutto per la svenevolezza di Puccini. Quasi mi scappa la lacrima quando il tenore intona la famosa romanza: “E lucevan le stelle,/ e olezzava la terra,/ stridea l’uscio dell’orto/ e un passo sfiorava la rena./ Entrava ella, fragrante,/ mi cadea fra le braccia…”.
Il tenore nella parte di Mario Cavaradossi sa il fatto suo, le donne fremono e più d’una lacrima rovina il loro maquillage. Anche le più stagionate danno in pianto. Andrea, il tenore del momento, ci sa proprio fare, è fuor di dubbio un genuino talento. Mentre Andrea canta il suo strazio, la scorgo e tosto comprendo che per lei questa sarà l’ultima rappresentazione. Le siede accanto un nano con in dosso uno smoking; tuttavia lei non può vederlo. La Morte ama camuffarsi, e a suo modo s’illude d’esser spiritosa. Le fa delle smorfie disdicevoli che la povera vittima non vede. E però quelle smorfie…
E’ adesso qui davanti a me. Il pannolone non serve a tamponare il puzzo. La poverina ha accusato un attacco apoplettico un paio d’anni prima di venire a trovarmi su questo freddo letto. Se l’era cavata per un pelo, ma aveva perso il controllo della vescica e dell’intestino.
Il nano se la ride, è felice come una pasqua, balla sul corpo esanime, suda e canta a squarciagola.
Non ci sono motivi perché venga eseguita una autopsia: la donna è spirata a causa di un secondo fatale ictus. Le autorità hanno però disposto l’autopsia, per far felice la famiglia a cui non è proprio possibile rispondere con un no essendo la più in vista della città.
Metto sù la registrazione della Tosca e mando avanti fino alla romanza che mi interessa: “Oh! dolci baci, o languide carezze,/ mentr’io fremente/ le belle forme disciogliea dai veli!/ Svanì per sempre il sogno mio d’amore…/ l’ora è fuggita,/ e muoio disperato!/ E non ho amato mai tanto la vita!”.
Inizio il mio lavoro.
Il nano mi strattona il camice imbrattato di sangue. Finge innocenza, ma all’occhio umano risulta solo lubrico. Purtroppo sarebbe vana qualsiasi offesa, né una piuma né una palla di cannone servirebbero a farlo sparire. Sparirà quando ne avrà voglia, non prima.
Parliamo. Un botta e risposta serrato, senza quasi prender tempo per respirare.
“Che vuoi?”
“Ti piace il tuo lavoro?”
“Lo faccio.”
Il nano si lecca i baffi. “Era ancora giovane.”
“Troppo giovane.”
“Quaranta anni.”
“Perché?”
“Non l’ho deciso io.”
“Chi allora?”
“Lo sai meglio di me: Dio.”
“Tu hai eseguito la sentenza.”
“Io obbedisco. Piuttosto che dice la tua autopsia?”
“Niente che non sapessi già. Era sana come un pesce.”
“Sana?! Due ictus nel giro di due anni…”
“Era sana”, ripeto sparando alto il tono di voce.
“Non ti arrabbiare con me. Non sono io che l’ho voluta morta.”
“Hai obbedito però. Avresti potuto rifiutarti. Era così giovane e bella.”
“Non vedo perché… tanto prima o poi tocca a tutti.”
“Non è giusto.”
“Per te non è giusto. C’è chi più in alto di te che non la pensa così.”
“Maledetto Diavolo.”
“Da quel che si racconta in giro non bazzica il Settimo Cielo da un po’ di tempo. C’è solamente quel diavolo di Dio lassù e nessun’altra anima. Nessun’altra anima, credimi. Tu sei qui soltanto perché lui ha deciso così.”
“Anche questo non è giusto.”
“Hai ancora tanti cadaveri da aprire come pesci, non ti preoccupare.”
“Perché ha scelto proprio me per questo sporco lavoro?”
“Perché avrebbe dovuto scegliere un altro? Non mi fare i capricci, non sei più un bambino.”
“Sparisci!”
“Tu non ordini.”
“Ti ho detto di sparire.”
“Che ti rode? L’hai amata. E’ stato tanto tempo fa. Dovresti aver superato da un pezzo i turbamenti dell’adolescenza.”
Non posso far altro che pazientare, prima o poi porterà via le chiappe. Prima o poi.
Le ore in obitorio volano, coi morti ci parlo, ci ragiono anche.
Lei che tanto ho amato in gioventù e che mai ha risposto a un mio saluto adesso mi ascolta osservando un silenzio crudele.