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UNA PASSIONE LUNGA TUTTA LA VITA. Per Vittorio Vettori studioso e poeta (Parte II). Saggio di Giuseppe Panella

Creato il 28 marzo 2011 da Retroguardia

UNA PASSIONE LUNGA TUTTA LA VITA. Per Vittorio Vettori studioso e poeta (Parte II). Saggio di Giuseppe Panella

[QUI] la prima parte del saggio UNA PASSIONE LUNGA TUTTA LA VITA. Per Vittorio Vettori studioso e poeta

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di Giuseppe Panella

 

4. Da Campaldino patria ideale a Eleusis forma di esperienza spirituale: nascita dello “stile etrusco”

La prima raccolta di versi veramente significativa di Vettori come poeta è Poesia a Campaldino del 1950. Sono versi legati alla tradizione novecentesca ermetica e non (in particolare alla versione cristiana di questa corrente letteraria con riecheggiamenti di autori quali Betocchi e Lisi, poeti e scrittori amati poi fino alla fine, anche se meno presenti in seguito e sostituiti nelle scelte di scrittura da altri – e certo più prestigiosi – modelli).  Nella seconda delle liriche presenti in Versi per l’Italia (del 1960) è forte l’eco di una delle poesie meno “ermetiche” di Salvatore Quasimodo (la Lettera alla madre):

«II. La prima volta che, oltre i libri, con gli occhi, / vidi Roma fu avanti i vent’anni. Fuggii / mi ricordo, dalla casa paterna, in Valdarno, / di prima mattina, / e con uno scassatissimo accelerato arrivai / alla stazione Termini nel pieno fulgore del giorno / in un alto meriggio sereno. / Solo beato commosso, con alacre piede girai / tutto il giorno, dal Campidoglio a Valle Giulia, da via / Nazionale a Castel Sant’Angelo e ai Prati. / M’inoltrai nella notte romana, sotto l’infinito stellare / che mi parve allora diverso quasi per un riflesso / del ritmo preciso dell’Urbe…”» (28).

Notevole per l’empito lirico è poi un testo che appartiene alla raccolta Quadernetto di Grecia di tre anni dopo:

«Atene di notte. Atene di notte, a guardarla / dal Pireo, è tutta un’orchestra / di colori, dal bianco / alabastrino del Partenone che svetta su in alto nel cielo al turchino / cupo dell’acqua marina / che un caldo vento carezza: e nel petto / l’anima canta quasi cicala / impazzita, accordandosi / con le chitarre che nelle vicine taverne / ripetono ai bevitori di biondo vin resinato / – amore, morte, compianto – / l’eterna storia del mondo» (29).

L’amore per l’antica classicità si sposa qui con la simpatia umana per i luoghi e le persone che vi abitano e vi trovano il loro luogo deputato di gioia e di cordialità. La passione per i luoghi e i suoi colori si sposa con l’amore per la gente che li vive e li riempie della propria gioia di vivere: il Pireo è il luogo dove ritrovarsi attraverso l’abbraccio con i greci appartenenti alle classi più umili della società e rileggere attraverso le loro canzoni (come fa il Narratore di Zorba il greco di Nikos Kazantzakis attraverso la danza forsennata e dolcissima del suo personaggio principale) i propri sentimenti e le proprie passioni.

L’evoluzione effettiva della scrittura poetica di Vettori, però, lo conduce ben presto ad abbandonare la forma lirica tradizionale per cercare la coniugazione naturale tra l’impeto del poeta e la scansione esegetica del pensatore. La sua idea di “filosofia della parola” gli permetterà così di congiungere la riflessione sulle parole (che eredita così da Heidegger, da lui oltretutto ben tradotto in quello stesso periodo in chiave espressivamente ritmata e volutamente tanto “poeticistica” quanto non-teoretica) alle parole che riflettono una soggettività che si vuole capace di indagare sulla realtà dello spirito non rinnegando la realtà materiale del mondo in cui vive e si confronta. Uno dei momenti più significativi di questo passaggio stilistico (ma anche di contenuto poetico) avviene nella raccolta La mente futura del 1977. Eccone uno degli stralci più significativi (ma gli esempi da fare sarebbero molti):

«Senza tempo. Era il vento (ànemos, anima), / era il vento (spiritus, spirito), / era il vento, cara, / a innalzare tesi stendardi / di bianca luce marina / tra Recanati e Loreto, e più in là, / fin sotto al Conero, fino a Numana. / Era il vento (ànemos, spiritus) / a dare ali ai miei passi / su e giù per le vie del borgo, / in cerca di qualcosa che mi parlasse di Giacomo, / di Silvia, di Nerina, del conte Monaldo / e della contessa sua moglie, madre del poeta, / occhi azzurri impassibili / e tuttavia appassionati, / titanismo e pietà, non diversamente dal figlio / (ero appena arrivato, pellegrino, / per la prima volta nella vita, / e alla pienezza della gioia / mancava soltanto il tuo volto). / Era il vento (anima, spirito) / a cancellare la boria delle lapidi, / a soffiare il suo sarcasmo sibilante / sul codice mistificato / dei freddi busti marmorei. / Era infine il vento a recarmi, / sul monte Tabor, sul colle dell’Infinito, / la tua viva voce: da lontano / o meglio da dentro mi giungeva, / come se fosse la mia stessa voce, / a dirmi le indicibili parole / che sanno dirmi unici i tuoi sguardi / nell’ora senza tempo dell’amore» (30).

Omaggio a Leopardi, certamente, ma anche abbandono a quello Spirito giovanneo che sempre soffia dove vuole e trova nel Logos il luogo deputato e meraviglioso per raccontare la verità del mondo.

Sarà però nel lungo poemetto Eleusis. Il libro delle chimere (31) del 1988 che Vettori utilizzerà definitivamente il modulo semantico che caratterizzerà da allora in avanti il suo progetto di scrittura della poesia. E’ lui stesso a formulare la sua futura poetica nello Prologo stesso ad Eleusis.

«A questo punto mi accorgo di non avere più un volto, se è vero che quelle immagini non appartengono tanto a me quanto alle chimere che in me han preso stanza per consentirmi di “pascermi”, come diceva il buon Machia, “di quel cibo che solum è mio e che io nacqui per lui”. Ma che cosa sono poi queste chimere? Le chimere sono evidentemente il plurale della chimera, una pluralità di voci e figure derivata dal principio (chimerico appunto) di ogni possibile apertura della fantasia e del pensiero, per mezzo del sentimento, verso l’inesauribile. Non c’è la benché minima contraddizione tra questo principio intrinsecamente unitario e la molteplicità delle sue manifestazioni. Dirò meglio: il principio si risolve di fatto nelle sue diverse espressioni concrete, attraverso un processo di proiezione e di trascendimento dell’ego per cui il dominio di una prima chimera originaria e sorgiva corrisponde all’incipit di una vita e di una vocazione, quello di una seconda chimera orientata nel senso di una coralità consapevole e attiva (nos-ego) contrassegna gli anni della piena maturità, quello invece di una terza e vespertina chimera incline al dialogo trasognato e sapiente (tu-ego) vale a confortare e a sorreggere l’età dell’incipiente declino, mentre la cima delle chimere viene successivamente raggiunta nell’atto del congedo con l’accettazione serena del necessario distacco (“explicit ego”). La non contraddizione fra chimera e chimere spiega perché l’intera compagine dei Canti Orfici di Dino Campana sia attraversata da una linea ascendente che lega la chimera del primo “notturno” (“E ancora ti chiamo, ti chiamo, chimera”) alle “chimere nei cieli” del grande canto finale intitolato Genova» (32).

Il principio della scrittura poetica è legato alla volontà di esporre e di proporre le proprie chimere come sostanza della propria esperienza di vita: descrivere le chimere significa trasformare la sostanza ancora grezza della vita in filo rosso della poesia come sintesi tra lirica e pensiero, tra scrittura e concetto, tra progetto letterario e stile di pensiero. Prosegue, infatti, Vettori citando Gérard de Nerval, uno degli altri grandi creatori di letterarie chimères (33) e di spirituali speranze cui la sua pratica di scrittura apertamente si rifà:

«Tuttavia mi permetterò di aggiungere, qui in limine, tre ultime “variazioni sul tema”, ispirate al proposito di meglio chiarire le ambizioni certamente un po’ temerarie di questo mio “libro di chimere”. Prima variazione. Aveva ragione Gérard de Nerval quando, identificando la riuscita delle chimere con la riuscita della parola poetica, affermava che, pur guardando verso l’impossibile, in pratica esse chimere, queste eterne fidanzate dell’impossibile, operano “dans le lieu du possible”, in quel luogo del possibile che è il luogo della parola, e lì si realizzano o possono realizzarsi, possono cioè risultare vincenti. Seconda variazione. Aveva ragione il nostro Dino Campana allorché, esplicitando i suoi istintivi e istantanei modi e comportamenti di abituale frequentatore di quel tale “lieu du possible” che è il luogo della parola come invenzione e avventura, metteva in primo piano il “ricordo che non ricorda”. Si tratta in ultima analisi di quella “immemoriale memoria” a cui si fa cenno nei cinque versi dell’epigrafe di questo libro (e di questo stesso prologo in prosa). Immemoriale memoria strettamente imparentata all’ “agire senza agire” della sapienza orientale, come pure alla Speranza senza speranze e all’Amore senza amori a cui ugualmente mi sono richiamato all’inizio del presente discorso: tutte forme analoghe e convergenti di quel preliminare sforzo ascetico di purificazione che è da considerare indispensabile ai fini della doppia (unica) riuscita chimerico-poetica. Terza variazione. Le chimere di cui questo libro si occupa non hanno nulla a spartire con la chimera tentatrice e incantatrice consacrata dalla fertile Musa dannunziana sia nella ricca e sapida prosa del Piacere sia nell’onda musicale dei versi intitolati appunto La Chimera, sulla scia dell’estetismo e del satanismo derivati da Baudelaire, da Gautier e da Villiers de l’Isle-Adam. Le chimere di questo “libro delle chimere” si muovono piuttosto nello spazio simbolico post-faustiano aperto da Dino Campana e ripercorso più tardi da un Giulio Arcangioli e da un Mario Luzi» (34).

5. La chimera e altro: il post senza risposte

E’ con Eleusis, allora, che Vettori rompe con la tradizionale contrapposizione tra poesia lirica e scrittura in prosa tipica della tradizione letteraria italiana e adotta un particolare modulo di redazione poetica che cerca di inglobare l’una nell’altra. Non si tratta in questo caso di un rifiuto della poesia come descrizione degli stati (e degli strati) dell’Io più profondi né di un privilegiamento di quello che altrettanto tradizionalmente viene definito “capitolo rondista” (35). Vettori cerca un “terzo livello” della poesia che, con una metafora a lui particolarmente cara, si potrà chiamare “stile etrusco” et pour cause.

«Gli Etruschi possedevano in maniera eminente il genio della metamorfosi. E non è un caso che il nome primo di Roma sia Rumak, nome ovviamente etrusco, il cui significato è “mammella” (una mammella che ha saputo allattare per secoli e per millenni i popoli più diversi), così come non è un caso che il Leone di San Marco altro non sia, con le sue ali alzate e la sua coda anguiforme, se non una chimera etrusca trasformata. Ebbene, proprio questo genio della metamorfosi ha consentito all’immortale anima dell’antica Etruria di presiedere al fenomeno più rilevante della cultura europea e universale, che va sotto il nome di Renaissance, o Rinascenza o Rinascimento, e che, una volta, veniva interpretato come una reviviscenza di spiriti greci e romani, ma oggi, sulla base anche di nuovi dati e reperti, più persuasivamente s’inquadra, secondo la tesi sostenuta a suo tempo da Pericle Ducati, in un’ottica genealogica etrusca. Il rinascimento è cosa troppo seria e troppo complessa per potere ragionevolmente spiegarsela con i criteri e i parametri offerti dagli specialisti del medesimo. Soltanto un’analisi transdisciplinare, che sappia corrispondere in pari tempo a una visione d’insieme trans-storica, può rendere pienamente ragione di questo autentico miracolo, caratterizzato da una vitalità inesauribile, da un’infinita capacità di ripresa» (36).

Il Rinascimento, luogo deputato da sempre a costituirsi come il polo di riferimento assoluto degli studi letterari di Vettori, diventa anche il luogo trans-storico e trans-umano dal quale partire per individuare il livello “etrusco” della sua scrittura. Non certo il Rinascimento storicistico degli studi filologici, quella di Vettori è una Rinascenza che si fonda su una verifica esistenziale della propria natura perenne e non eliminabile dal regno dello spirito, punto di riferimento e Orsa Maggiore verso la quale i naviganti rivolgono la loro rotta per comprendere che cosa li ispira a continuare nella navigazione e che cosa faranno della loro vita nel futuro prossimo venturo:

«[...] essendo in sostanza il Rinascimento un rinascere della vita dalle proprie ceneri, il problema interpretativo si pone in termini di attraversamento pratico sia della vita sia della morte. Per capire il Rinascimento, bisogna insomma riviverlo. E per riviverlo non si può fare a meno di seguire il consiglio del poeta filosofo di Zarathustra, Friedrich Nietzsche, il quale implicitamente esortava a frequentare i sepolcri, in quanto “solo presso i sepolcri sono possibili le resurrezioni”. Il segreto del fenomeno rinacimentale sta dunque nel sentimento della morte come parte integrante della vita, per cui si accetta e addirittura si cerca l’esperienza della “mortificatio” come accesso a una più alta e più piena forma di realtà vitale. Ma il punto di partenza rimane pur sempre quello: la confidenza con i sepolcri, l’abitudine di frequentare e di accarezzare le tombe. E siccome nessun popolo ebbe mai questa confidenza e questa abitudine come l’ebbero gli Etruschi, ecco la civiltà etrusca diventare l’antecedente e il prototipo di tutti i Rinascimenti, a cominciare da quando, utilizzando la simbologia delle necropoli etrusche, le prime comunità cittadine del Medioevo europeo edificarono le loro cattedrali e i loro campanili come gigantografie architettoniche, rispettivamente piccole case stilizzate, collocate in quelle metropoli davanti alle tombe femminili, e colonnini che ornavano le contigue tombe maschili. In questo quadro metamorfico, tanto severo quanto rassicurante, che ha visto l’identità delle vecchie tombe etrusche trasformarsi nel nuovo paesaggio urbano delle chiese e dei campanili, s’inserisce e grandeggia la figura centrale del primo Rinascimento nella persona di un giovane gaudente e cavaliere di Assisi, che diventerà poi il Poverello» (37).

La scrittura poetica di Francesco d’Assisi scandirà la nascita dello “stile etrusco”. Il Cantico delle creature sarà il vero manifesto della nuova lingua volgare e si incarnerà in lui come persona e come simbolo della poesia a venire. Questo perché, secondo Vettori, è proprio nella sua straordinaria e santificante esperienza esistenziale che nasce il modello nuovo cui ispirarsi per realizzare il progetto di una scrittura che sia compiutamente e originalmente riposante su se stessa. Si tratterà, quindi, di un modello di stile che sia contemporaneamente la profezia di una vita futura tutta da scoprire e la verifica della validità del passato anche più remoto cui la cultura dell’oggi è ancora necessariamente ancorata. Di esso si potrà dire, sempre con le parole di Vettori, come sia sempre legato rimasto a quell’esperienza privilegiata e al suo estrinsecarsi serenamente nel mondo:

«Il quale seppe mettersi a specchio dell’itinerario etrusco morte-vita per proporre, simmetricamente, il corrispondente tracciato vita-morte, adottando la mortificatio a tutti i livelli (dall’autospoliazione alla ripetizione puntuale intra Tevero e Arno del sacrificio di Cristo) come una tecnica di perfetta letizia. Tecnica tutto sommato artistica, in quanto Francesco (ossia Giovanni Francesco, in omaggio alla madre Francesca cioè francese) lavorava sul proprio corpo e sulla propria anima con la stessa perizia artigiana con cui gli orafi e gli altri “artisti” della sua Assisi lavoravano sulla materia. Tant’è vero che, tra i suoi molti miracoli, quello di maggiore rilievo è forse la creazione, pressoché ex nihilo, di una lingua poetica destinata a diventare, di lì a tre quarti di secolo, la lingua di Dante. Tra il Cantico francescano e le tre cantiche dell’Alighieri corre, difatti, un rapporto di strettissima parentela, rilevabile da chiunque, solo che si rifletta su due circostanze: prima, il carattere genuinamente evangelico sia del Cantico sia delle tre cantiche; seconda, la relazione speculare di queste rispetto a quello, dimostrata dal fatto che Dante ha capovolto, con un forte moto ascensionale dal basso in alto, la struttura viceversa discendente del Cantico (dall’iniziale “Altissimo” al finale “humilitate”), conservandone il ritmo ternario e il fondamentale carattere cristologico (tant’è che se il Cantico, tripartito come il poema, si estende per 33 versi, quelli del poema sono 14233)» (38).

Il nuovo “modo etrusco” di Vettori (nel modo in cui si vedrà maggiormente esplicitato in Il signore del post del 1999) si caratterizza per un’adesione e per un recupero della scrittura “prosastica” (ma solo in apparenza) di Francesco d’Assisi e per l’accettazione produttiva del suo legato all’interno del proprio modello di scrittura visto come un modulo semantico capace di incorporare e di ricomporre poesia e prosa poetica (39).  Rimodulare la prosa attraverso la poesia rappresenta la soluzione di poetica escogitata da Vettori in questi suoi ultimi anni. Ne sono testimonianza proprio i testi poetici di Eleusis nei loro aspetti più significativamente innovativi e nella loro proposta di estemporaneità “chimerica”. Ecco un classico (ed esplicito) esempio della nuova “maniera” vettoriana di coniugare riflessione concettuale ed empito lirico-narrativi:

«Qui adesso dalla corte dei maestri assisa / nella vecchia Sapienza pisana ci vengono incontro / altre due voci. Una è quella di Giovanni Gentile, / il filosofo-poeta siciliano immolato sull’altare / della guerra civile dopo aver scritto nel suo ultimo / libro parole che travalicano il tempo come queste: / “Uno più è lui e più è tutti”. Dove il pronome “lui” / non ha nulla a che fare con l’ego ma equivale / alla mortificazione dell’ego e alla sua positiva / risoluzione in quel “sé” in cui e per cui ognuno / comunica liberamente con l’altro e con l’alto / (come col profondo, si capisce, perché in definitiva / unica è la dimensione dell’alto e del profondo). / La seconda voce appartiene a Gaston Bachelard, / da cui ci viene / questo “memento” solenne che suona: “ La vita / può essere conservata soltanto a condizione / di essere sempre di nuovo rigenerata”. / Ed è lo stesso Bachelard, barba bianca fluente / di venerabile saggio e anima candida di fanciullo, / a inviarci da una sua pagina quest’altro messaggio: / “Nella miniatura di una sola parola / ve ne sono di storie!”.» (40).

Il testo citato sopra è ciò che Vettori chiamava (già da prima di Eleusis [41]) un anticanto: che non è il contrario o l’opposto del canto della tradizione lirica italiana di ascendenza petrarchistica ma è ciò che congiunge la scrittura lirica personalmente modulata in “rime petrose” alla riflessione teorico-filosofica o alla notazione di diario. Tutte le tre parti del poemetto sono costruite intorno alla narrazione di eventi personali (viaggi, letture, conoscenze, incontri) che diventano riflessione estetica o filosofica nel momento in cui si trasformano in scrittura poetica:

«LIII. Qui ancora ci sia consentita una breve appendice. / Se è vero che non potrebbe darsi coscienza / di essere mortale per l’uomo se non ci fosse / nell’uomo la facoltà di pensare ossia di parlare / (perché il pensare dell’uomo è sempre un parlare), / ne consegue di necessità che l’uomo capace di rigenerare / in un silenzio simile alla morte il proprio parlare / può essere considerato in qualche modo figura / (prefigurazione) di colui che morendo con gioiosa pena / perviene alla sua seconda nascita, e alla sua resurrezione / (un approdo che stava particolarmente a cuore al più / grande dei nostri drammaturghi cristiani, a quel poeta- / profeta della resurrezione che fu e resta il carissimo / Diego Fabbri). Tale infatti è la condizione autentica del / poetare: morire a se stessi, alle proprie chiacchiere, alle / proprie vanità, mutar d’ale come diceva qui a Pisa non a / caso Ariele, per ritrovarsi nuovi in quella forma speciale / di conoscenza che è in realtà conascenza (l’ambivalente / connaissance di Claudel). E che cosa vuol dire / conascenza se non rinascere insieme nella parola / riconsacrata dal Verbo, da quel Sole senza tramonti che è / il Christus Sol? Che cosa vuol dire conascenza se non / ubbidienza al comando omnes unum sint di quello Spirito / divino che non è appena lo spirito dei soliti spiritualismi, / l’abusatissimo Geist, ma è invece lo Spirito Santo, / Heilige Geist, viva e sfrecciante chiarità dell’Essere con / forma e nome e luce di colomba?» (42).

La poesia per Vettori si configura, allora, qui (e anche successivamente) come esperienza eminentemente religiosa. Poetare significa rigenerarsi spiritualmente e umanamente, ma anche ri-generare il proprio linguaggio e trasformarlo in esperienza il più possibile vicina al Divino, al Sacro di cui sono impastate le più importanti esperienze umane. Il linguaggio umano ritrova così le proprie basi sacre e sacramentali e si fa attingimento del profondo da cui derivano le situazioni umanamente (culturalmente, religiosamente, antropologicamente) più significative: la Vita, l’Amore, il Dolore, il Sogno, l’Avventura (umana e culturale), la Morte, la Resurrezione spirituale. La poesia si spinge fino ai confini estremi di queste esperienze dell’umano per trasumanarsi nel troppo umano dello spirito: la scrittura è il verbale luccicante e risonante di gloria di questo passaggio attraverso la materia per assurgere alla spiritualità del Logos. In teoria poesia e spiritualità dovrebbero coincidere in un’apoteosi linguistica totale ma per giungervi debbono passare attraverso la scrittura. E’ in questo spirito di lettura del momento poetico che Vettori descrive la poesia ed elogia il grande (e ancora non ben conosciuto) Giacomo Noventa (43):

«XCIV. Come sarebbe più comodo (per parecchia gente) onorare / i poeti soltanto quali dispensatori di innocue e gradevoli / collane di parole (cioè praticamente di chiacchiere, / lontane senza rimedio dalla verità sacra della parola, / dal (Verbo) ! E invece i poeti della specie di Noventa, che poi / sono i poeti-poeti, i poeti genuini e integrali, non si con-/ tentano di essere applauditi, pretendono di essere ubbidi-/ ti, perché sanno di essere loro i veri legislatori della città, / gli unici in grado di salvare la Lingua e di liberare così / da ogni astrattezza il Pensiero (Parola parlante e Pensiero / pensante bastano infatti a rendere una vita umana / veramente vivente). In questo spirito nel ’74 tra Firenze e / Pisa giustamente volesti che fosse ricordato Giacomo / Noventa. Elio Filippo Accrocca, Marino Barchiesi, / Fausto Belfiori, Nino Muccioli, Mario Soldati vennero / rendere dai loro vari punti di vista un’appassionata e / lucida testimonianza corale, destinata a durare, malgrado / ogni preconcetto. In quei giorni stessi ti capitò / di colloquiare a lungo nella sua villa di Camerata con un / altro Giacomo, che in fatto di civiltà, delle parole come / delle persone, ha lasciato pagine memorande: Giacomo / Devoto. In piedi, tra muraglie di libri, ti apparve per / quello che era: una guida, un Re nascosto, un custode / sapiente del Valore che fa uomo l’uomo» (44).

Noventa rappresenta un ottimo punto di riferimento per dare un giudizio provvisorio della poesia di Vettori: come Vettori, Noventa fu un poeta isolato ma non certamente schivo, spesso troppo poco considerato dalla critica (e riscoperto pienamente solo dopo la sua morte) ma combattivo e sempre animato dal desiderio di contribuire alla vita civile e sociale del Paese. E abituato a lottare con le armi della parola: come Devoto, maestro insigne di linguistica italiana, come Vettori stesso liberatore della Lingua ormai prigioniera e sprofondata nella vita quotidiana, suo ri-utilizzatore quale arma principe nella lotta delle idee e quale scalpello affilato nel reame del Pensiero. I “poeti-poeti” (come si può leggere sopra) sono quelli che usano la parola in nome del pensiero e delle sue asprezze, anche se poi proprio dalle sue eccessive difficoltà sono in grado di liberarlo mediante l’esercizio della gioia nella scrittura. Come accade nelle straordinarie linee di canto che compongono il Cantico di frate Francesco rievocate in Epifanie del sacro, nel richiamo al giorno futuro del 1993:

«XVIII. La prima esperienza del pianeta, anteriore anche / al momento / in cui lo Spirito alitava sulle acque medesime, / così come la prima esperienza della vita per ognuno / di noi / si attua silenziosamente nella prenatale navigazione / dentro il minuscolo oceano del ventre materno. Il nostro / stesso corpo, si sa, è materiato prevalentemente di acqua. / Sicché giustamente il grandissimo poeta santo Giovanni / detto Francesco, / autentico alter Christus nel suo gioioso cantico / di Frate Sole / metteva al primo posto delle creature da lui convocate / “in laudem Dei”, / “nostra Sora acqua la quale è molto utile et humile et / preziosa et casta”. / Pochi sanno – e in realtà in proposito non posso citare / documenti / né testimonianze, ma solo una leggenda che si tramanda / nella mite / e rovente Umbria e che m’è stata riferita dal mio amico / prof. Padeletti – / come nella sua visita al Saladino il Solare santo di Assisi / abbia / chiesto e ottenuto di essere condotto presso al pozzo / della Samaritana, / e come l’acqua viva del pozzo dal profondo gli sia / apparsa quasi / come “anima mundi”, e voce dell’ineffabile, / festosamente animandosi» (45).

Sempre più spesso – come si può vedere – il percorso poetico di Vettori si intreccia con l’evocazione del lascito poetico di Francesco d’Assisi, il padre spirituale della lingua italiana derivante e proliferante dall’etrusco. Ne è testimonianza Il signore del post, una tarda raccolta del 1999 dove il lascito di Francesco è evocato e verificato in una serie di riflessioni poetiche sull’importanza del legato etrusco per la lingua della poesia italiana

contemporanea.  E’ la prima tappa che lo porta a ritrovare le proprie radici in un popolo ancora misterioso come quello vissuto in continua sfida con Roma.

«Signore 21. […] E chi potrebbe contarli gli istanti (eterni) di una vita / come quella dell’immensa anima pre-clara così simile / a un vivente sole, simile al Tao, simile al Logos, / vita di Giovanni nominato Francesco, fi’ di Bernardone, / tutta quanta arsa d’amore e culminata in cima / al crudo sasso “intra Tevero e Arno” in Casentino / Col cruciale atto delle invocate Stigmate trionfali? / Innumerevoli istanti. Numerabili / invece gli anni, undici, che separavano lui / Giovanni-Francesco dall’amata Chiara. Numerabili / anche gli anni, quattro volte undici, quaranta. / quattro, del santo archimandrita, anche poeta / del Cantico di Frate sole (o delle creature), articolato / in tre serie di undici versi lunghissimi assommati nella / medesima cifra, trentatrè, esemplarmente osservata sia / dalla vita-destino dell’Agnello sacrificale, Verbo, / fatto carne, Figlio dell’uomo-Figlio di Dio, sia dal poeta / che triplicò quel Cantico in tre Cantiche, Inferno, / Purgatorio, Paradiso, non per niente dedicando a / Francesco nato Giovanni il canto undicesimo della Terza / Cantica. Ma perché ti racconto, caro Amico, queste mie / tanto spesso ripetute fole o fanfaluche, intese a / saldare temerariamente Dante ossia Durante poeta / sovrano al Serafico (la cui dura intenzione sapeva / aprirsi, ricordiamolo, regalmente), la Comedìa dantesca / alla sacra rappresentazione jacoponica, il rinasci- / mento francescano a quello che poi tra Tre e Cinque- / cento fece da ponte tra Dante e Michelangelo? Perché /  anche nelle nostre piccole vite persiste una pur / minima traccia di quel destino di grandezza e di gloria.» (46).

Anche nelle canzoni d’amore scritte per celebrare la sua seconda moglie Ruth, Vettori ritrova l’entusiasmo per la propria ascendenza dal popolo degli Etruschi e si identifica con il dio dell’entusiasmo Fufluns da essi venerato (se si deve credere a Elias Canetti). Qui, ovviamente, l’entusiasmo equivale alla poesia, è parte per il tutto rispetto ad essa:

«Signore 20. Oh, sì, forse… / Forse era Fufluns, Fuflunte / (il dio dell’entusiasmo, per gli Etruschi) / a dirti: stalle accanto, parlale parlando / a te stesso in realtà con la speranza / che sia poi lei a rispondere al tuo posto, / lega il tuo sguardo a una carezza lieve / che le sfiori i capelli e la inghirlandi / nel suo sorriso, chiamala col nome / suo più vero che vuol dire Rosa, / chiarità metafisica del fiore / d’intelligenza posto sulla croce / della nostra esistenza a suggellare / (diciamolo con Dante) la costanza / della ragione: e qui proprio con Dante / stranamente concorda, a parte Vasco / Pratolini, perfino Salomone / di Prussia, meglio noto come Gior- / gio Guglielmo Federico Hegel. // For- / se era Fufluns, Fuflunte, etrusco dio / dell’entusiasmo a dirti: non tardare / a tentar presso di lei le vie del cuore / avventuroso, tieniti ben stretto / in pugno presso a lei questo tuo tempo / ultimo e fanne l’atto donde nasca / lo spazio misterioso detto Aleph, / ove tutti i giorni si ritrovano / fusi ma non confusi, cabalistica / proiezione dell’ En Soph come Sophia / o Iside-Sophia (la ”dea ignota”), archetipo dei numeri scoperti /

da Cantor in zona transfinita / in cui qualsiasi sottrazione lascia / intatta l’interezza del totale. // Forse / era l’entusiasta  Fufluns, Fuflunte, etrusco / dio, a dirti: parla a te stesso, parla, / perché lei risponda» (47).

Poesia d’amore, certo, ma anche scrittura che coniuga il segno del sacro con quello della spiritualità più complessa e arcana per giungere a circonfondere il Presente con l’aura del Passato. La saggezza umana si sostanza dell’eternità che in essa affiora quando la parola riesce a trasformarsi in verità e a perdere il proprio carattere di transitorietà reso necessario dal suo essere con-finato nel mondo:

«In mezzo al silenzio. Quando la Parola nasce? Non nasce / come nostra creatura e fattura, se piace / a noi dirla e darla alla luce, farla / proprio nascere insomma, inventarla. // Nasce rampollando come acqua sicura, / ininterrottamente sorgiva e ferace, / anche se noi non riusciamo a vederla / e nemmeno a sentirla, in mezzo al silenzio. // Oh chiaro Logos eracliteo senza fine / Quando la parola nasce, è sempre e per sempre / e sopra di noi ignari si spalancano i cieli. // Perché? Perché la Parola, che è il Logos, sgorgando / dalla nostra povera mortalità, in se stessa è infinita- / mente preziosa, in se stessa è immortale» (48).

6. Breve epilogo su Paul Celan

E’ questo il paradigma della poesia che ha ispirato Vettori. Poesia fatta di parole ma anche e soprattutto dell’esperienza che di esse si può avere nel silenzio della meditazione, nella riflessione sul Sé più profondo che conduce verso l’Altro. Attraverso la poesia si giunge a ritrovare quell’Ospite (per dirla con Paul Celan [49]) che prende posto nella parte più segreta, più nascosta di noi stessi. E non si tratta soltanto di un Ospite come tanti ma, in realtà, di un Doppio che prende congedo soltanto quando la mente non è più in grado di coglierlo, quando vacilla, quando la ragione sembra assopirsi e cedere il passo a un Altro che ne raccoglie le istanze ma le trasfigura e le conserva in sé:

«Ma il poema parla, vivaddio! Esso non smarrisce il senso delle proprie date, eppure – parla. Certo, esso parla, sempre e soltanto, rigorosamente in prima persona. Ma io ritengo – e simile pensiero a questo punto non può destare la Loro sorpresa – io ritengo che da sempre tra le speranze del poema vi sia quella di parlare in tal modo anche per conto di estranei – no, questa parola ormai non posso più usarla – di parlare, precisamente in tal modo, di parlare per conto di un Altro – chissà, magari di tutt’Altro.  Questo “chissà”, a cui ora mi vedo approdare, è l’unica cosa che – pur oggi e qui – io possa, di mio, aggiungere alle vecchie speranze. Forse, ora debbo dirmi, – forse è concepibile perfino un incontro di questo “tutt’Altro” – e uso così un noto surrogato verbale – con un “altro” non troppo lontano, anzi del tutto vicino – ciò è nuovamente, è sempre concepibile. Su tali pensieri il poema indugia, ovvero s’azzarda a sperare – parola da mettere in rapporto con la creatura. Nessuno può dire quanto a lungo la pausa del respiro – questo sperare e pensare – quanto essa duri ancora. Quel “presto” che da sempre si poneva “fuori” – ha guadagnato in velocità; il poema ne è consapevole; ma esso si dirige imperterrito verso quell’ “Altro”, che esso immagina come raggiungibile, come suscettibile d’essere liberato, magari reso vacante, e allo stesso tempo […] orientato su di esso, sul poema. Certo, il poema – il poema, oggi – rivela (il che, a mio giudizio, alla fin fine solo indirettamente avrà a che fare con le difficoltà, pur non sottovalutabili, delle opzioni lessicali, con l’accelerato declino della sintassi, o con la vivace propensione all’ellissi), il poema rivela, ed è innegabile, una forte inclinazione ad ammutolire. Il poema – dopo tante formulazioni radicali mi concedano ora pure questa – si afferma al margine di se stesso; per poter sussistere esso incessantemente si evoca e si riconduce dal suo Ormai-non-più al suo Pur-sempre. Ma codesto Pur-sempre non può non essere un parlare. Quindi non verbo in assoluto e verosimilmente neppure “corrispettivo verbale”. Bensì linguaggio attualizzato, affrancatosi sotto il segno di un processo individuante, indubbiamente radicale, ma, allo stesso tempo, perennemente consapevole dei limiti che la lingua gli impone, delle possibilità che la lingua gli dischiude. Codesto Pur-sempre del poema, è chiaro che lo si può ritrovare solo nel poema di colui il quale non dimentica che sta parlando sotto l’angolo d’ incidenza della sua propria esistenza, della sua condizione creaturale. E allora il poema sarebbe – ancora più chiaramente – linguaggio, diventato figura, di un singolo individuo – e, nella sua più intima sostanza, presenza e imminenza» (50).

Questa lunga citazione da Celan è funzionale, a mio avviso, a chiarire l’approdo della poesia dell’ultimo Vettori: sempre più inteso, da un lato, a inglobare la prosa nel testo poetico e, dall’altro, a cercare la parola pura che sintetizzi e stringa il concetto nel pugno chiuso del suo Pur-sempre. E questo spiega anche perché gli ultimi testi della sua ultima antologia di versi siano traduzioni-omaggio al poeta che fu tanto caro a Martin Heidegger. Proprio l’ultimo (quello che chiude la raccolta del Mezzosecolo) è, infatti, uno dei lasciti più stupefacenti del poeta suicida, disperato e aperto al futuro:

«Parla anche tu! Parla anche tu, parla per ultimo, dì il tuo pensiero. / Parla. Ma non separare / il sì dal no. Se vuoi dare / senso al sentire, ali / al pensare, procura / che l’uno e l’altro abbiano ombra. // Dagli ombra che sia / sufficiente, tanta / quanta sai che ne occorre / da mezzanotte a mezzanotte, passando / attraverso la metà del giorno. // Guardati intorno. Vedi / come si rivive passando / attraverso la morte, come / sono vere le ombre. // Ma ora più stretto diventa lo spazio / dove stai. Dove andrai adesso, / uomo spogliato dell’ombre? Dove ? / Sali. A tentoni / innalzati diventa più sottile; quasi un altro, più fine! / Più fine: un filo, lungo cui discenda / la stella, per nuotare, per brillare, tra / mareggianti errabonde parole» (51).

In questa sua volontà ineffabile di dire il contrario e trasformarlo in parole possibili di comunicazione profonda si nasconde e consiste (forse) il segreto della poesia di Vittorio Vettori.

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NOTE

(28) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 11. I versi di Quasimodo cui si faceva riferimento prima suonano invece così: “Finalmente, dirai, due parole / di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto / e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore, / lo uccideranno un giorno in qualche luogo” (Lettera alla madre in Salvatore Quasimodo, Tutte le poesie, Introduzione e cura di Gilberto Finzi, Milano, Mondadori, 199019, p. 179).

(29) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 26.

(30) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., pp. 74-75.

(31) Nell’agosto del 1796 Hegel scrive (dedicandola all’amico Hölderlin) una poesia dal titolo “Eleusi”. In essa predomina il sentimento della nostalgia (“le tue case, ahimè, sono divenute mute, o dea”) ma anche il presagio, la possibilità di un nuovo inizio, la comprensione per l’essenziale ineffabilità e incomprensibilità dei misteri (“al figlio dell’iniziazione la pienezza delle alte dottrine, la profondità del sentimento inesprimibile eran troppo sacre per considerarne degni gli aridi segni”) e per la difficoltà e l’indigenza in cui le parole si trovano quando sono chiamate a definire, a dar nome a ciò che è, per sua natura, totalmente trasposto al di là del linguaggio (“chi mai volesse parlarne agli altri, parlerebbe con la lingua degli angeli”). Si tratta, per Hegel, di un’adesione totale e della consapevolezza dell’ineffabilità del mistero. Non a caso, i misteri dell’antichità classica erano culti iniziatici tendenti ad assicurare una più diretta relazione col divino: “ogni iniziazione intende congiungerci al Mondo e agli Dei” afferma Sallustio (Sugli dei e il mondo, IV, 6) e introdurre ad un’esperienza straordinaria e capace di cambiare radicalmente l’esistenza all’iniziato era appunto lo scopo dei misteri, tra cui primi per importanza quelli di Eleusi, località dell’Attica non lontana da Atene. Questi ultimi erano dedicati a Demetra, la dea del grano, e a sua figlia Persefone, chiamata anche Kore, “la Fanciulla”. Tali misteri erano organizzati dalla polis ateniese e posti sotto il diretto controllo dell’ archon basileus. Eleusi era il luogo in cui Kore era tornata dagli inferi dopo esservi stata condotta da Ade.

(32) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 121.

(33) La raccolta di sonetti Les Chimères appartiene all’ultimo periodo della vita di Nerval (quella degli internamenti nella clinica del dottor Blanche e del suicidio “ermetico”) ed è stata redatta negli anni tra il 1853 e il 1854: “ El Desdichado. Io sono il Tenebroso, – Vedovo, – Sconsolato, / Principe d’Aquitania dalla Torre abolita: / L’unica Stella è morta, – e sul liuto stellato / E’ impresso il Sole nero della Malinconia. // Nel buio del Sepolcro, Tu che mi consolasti, / A me rendi Posillipo e l’italico mare, / Il fiore prediletto dal cuore desolato, / La pergola che intreccia il Pampine alla Rosa. // Sono Amore o son Febo?… Lusignano o Biron? Rossa ho ancora la fronte del bacio della Dama; / Sognai nella Grotta che la Sirena solca… // Due volte vincitore traversai l’Acheronte: / Modulati alternando sulla lira d’Orfeo / Della Santa i sospiri e della Fata i gridi” (in G. DE NERVAL, Chimere e altre poesie, trad. it. e cura di Diana Grange Fiori, Torino, Einaudi, 19723, p. 31).

(34) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., pp. 122-123.

(35) Sulla “prosa d’arte”, il rondismo e quelli che ne furono gli esponenti più significativi, cfr. E. GIACHERY, Il lettore in pantofole, Roma, Bulzoni, 1971; E. MONTALE, “Stile e tradizione” in Auto da fé. Cronache in due tempi, Milano, Il Saggiatore, 19722 ; M. SANSONE, “La “Ronda” e la prosa d’arte”, in Storia della letteratura italiana, Milano, Principato, 1973, pp. 631-638; G. MANACORDA, “La “Ronda” e dintorni”, in Storia della letteratura italiana tra le due guerre. 1919-1943, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 13-43 e L. CARETTI, “Il significato della “Ronda” ” in Antichi e moderni, Torino, Einaudi, 1973, pp. 337-362.

(36) V. VETTORI, “Lettera sugli Etruschi” in Dalla parte del Papa cit., pp. 217-218.

(37) V. VETTORI, “Lettera sugli Etruschi” in Dalla parte del Papa cit., pp. 218-219.

(38) V. VETTORI, “Lettera sugli Etruschi” in Dalla parte del Papa cit., pp. 219.

(39) Su questo tema, mi permetto di rimandare al mio “Fufluns ovvero come leggere la poesia di Vittorio Vettori” in Il giubileo letterario di Vittorio Vettori cit., pp. 191-198.

(40) V. VETTORI,  Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 168.

(41) Come accade nel Contropianto in morte di Ugo Fasolo del 1982 : “E contropianto ti ricordo vivo, / uomo-poeta Ugo Fasolo, amico / e guida, vivo come noi, con una / differenza che adesso solo vedo / e che sta in questo: mentre noi si marcia / nella vita fuggendo di continuo / il fantasma, il pericolo, il mistero / della morte, invincibile e spietata / regina, innominabile straniera, / tu portavi la morte nel tuo petto, / come poeta avvezzo a visitare / le dimore dell’ombra e come padre / costretto a ricercare oltre le soglie / dell’esistere un ponte di pensieri / verso il figlio caduto sull’asfalto” (in V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 105). La realizzazione poetica del Contropianto prefigura già nella scrittura l’anticanto successivo.

(42) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 184.

(43) L’opera di Noventa è stata pubblicata, a cura dell’ottimo Franco Manfriani, dall’editore Marsilio di Venezia in 4 voll. (1986-1989). Del vol. I, Versi e poesie del 1986, esiste anche un’edizione economica, senza note né apparato, egualmente a cura di Manfriani, del 1988. Per la critica sono importanti le quattro introduzioni di Manfriani ai volumi sopra citati e poi quella di Augusto Del Noce a Giacomo Noventa, Tre parole sulla Resistenza, Vallecchi, Firenze 1973 (fondamentale per la comprensione del pensiero cattolico noventiano). Cfr. poi G. DEBENEDETTI, Noventa, in Poesia italiana del Novecento, Milano, Garzanti, 1980, pp. 185-209; F. FORTINI, Noventa e la poesia e Noventa politico, in Saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, pp. 76-92 e 306-12, e “A un’ebreadi Noventa, in Nuovi saggi italiani, ivi, 1987, pp. 150-63; A. ZANZOTTO, Noventa tra i “moderni“, in “Comunità”, 130, giugno-luglio 1965 (utile per una valutazione linguistica del dialetto di Noventa) .Cfr. poi Giacomo Noventa, Firenze, Olschki, 1989, che raccoglie gli atti del convegno su Noventa svoltosi dal 26 al 28 giugno 1986 e curato sempre da Manfriani. Cfr. anche E. URGNANI, Noventa, Palermo, Palumbo, 1998, che contiene, fra l’altro, una storia della critica sull’autore e una storia del suo percorso di poetica.

(44) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 230.

(45) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., pp. 320-321.

(46) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., pp. 457-458.

(47) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., pp. 452.453..

(48) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 498. Su questi temi (e su posizioni vicine a quelle di Vettori), cfr. I.  P. COULIANO, Esperienze dell’estasi dall’Ellenismo al Medioevo, Roma-Bari, Laterza, 1989 e N. D’ANNA, La disciplina del silenzio. Mito, mistero ed estasi nell’antica Grecia, Rimini, Il Cerchio, 1993. Entrambi devono molto all’opera di Mircea Eliade e in particolare alla sua Storia delle credenze e delle idee religiose (Firenze, Sansoni, 1996) e agli scritti raccolti in Il sacro e il profano, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.  Sul tema del silenzio e dell’invisibilità di Dio, inoltre, cfr. M. M. M. LENZI, Forme dell’invisibile. Esperienze del sacro, Firenze, Clinamen, 2004.

(49) Nella bella traduzione di Vettori stesso: “L’ospite. Scambiato il saluto col buio, / l’Ospite, il Doppio, da te si installa / molto prima di sera. / Molto prima di giorno, / l’Ospite si ridesta / e prima di andarsene attizza / un sonno echeggiante di passi. / Tu ascoltando vedi che arriva / lontano: e lontano, laggiù, / la tua anima scagli” (proprio in Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 573).

(50) P. CELAN, “Il meridiano. Discorso in occasione del conferimento del Premio Georg Büchner, Darmstadt, 22 ottobre 1960” in La verità della poesia. Il meridiano e altre prose, a cura di Giuseppe Bevilacqua, Torino, Einaudi, 1993, pp. 14-15.

(51) V. VETTORI, Metanovecento (Poesie 1950-2000) cit., p. 575.

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UNA PASSIONE LUNGA TUTTA LA VITA. Per Vittorio Vettori studioso e poeta (Parte II). Saggio di Giuseppe Panella
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