Magazine Psicologia
Lo stesso attento lettore non avrà dunque mancato di osservare come, più volte, nel corso di questo iniziale viaggio, ci siano trovati nella condizione di dover dare nome a coloro che, a seguito di una qualche problematica che li affligge, entrano nei territori delle cosiddette "professioni di aiuto alla persona".
Per chi come noi intende la parola non solo quale oggetto che nomina il mondo ma, anzitutto, quale oggetto che fa esistere un mondo che, altrimenti, non avrebbe altra consistenza che l'indefinito, tale denominazione è questione tutt'altro che superficiale; nasconde, invece, importanti considerazioni capaci di profonde ripercussioni, ancora una volta sulle modalità in cui, alla fine, l'aiuto, la cura, vanno ad effetto.
Come chiamare, dunque, questi soggetti bisognosi di aiuto?
Secondo approcci più squisitamente sanitari tali soggetti dovrebbero prendere il nome di "pazienti". Questa definizione, per quanto ancora fortemente persistente, trova tuttavia, fin dagli anni Quaranta del secolo scorso, alcuni importanti detrattori.
Fu lo psicologo americano Carl Rogers, in particolare, ad eliminare per primo il concetto di "paziente" trasformandolo in “cliente”, proprio perché, nelle relazioni di aiuto alla persona, ogni affido passivo all'esperto di turno (la parola "paziente" deriva dal latino patiens che significa “sofferente” o “che sopporta”) è, di fatto, una sconfitta della terapia stessa poiché, sostiene Rogers, ognuno possiede le capacita' per auto-comprendersi, modificare e migliorare il proprio comportamento e il ruolo del terapeuta è quello di facilitare questo compito attivo creando un clima di accettazione, empatia, responsabilizzazione, che faciliti l'auto-realizzazione -appunto- del cliente.
Per altro, come è già stato osservato in un precedente post ("Professioni deliranti"), tale passività nelle relazioni di aiuto alla persona si dimostra, nella pratica, poco più che una fantasiosa mitologia, visto che, anche un'eventuale passività del paziente non riduce la particolare condizione sistemica che porta curato e curante a generare, insieme, sia la definizione del sintomo che il suo percorso di cura.
Ciò detto, non è che il concetto di “cliente” proposto da Rogers sia però più soddisfacente né, a nostro avviso, pienamente adeguato.
Il cliente, infatti, è, nella pratica comune, colui che compra una prestazione, un prodotto, un servizio e questo è senz'altro ciò che, in un'osservazione comportamentista, nei fatti avviene: un professionista eroga una prestazione e qualcuno che ne abbisogna ne fa uso comprandola.
Ciò detto, nessuno che abbia letto anche solo la ridotta biografia di Rogers su wikipedia, può avventurarsi a sostenere che questo fosse l'intento dello psicologo americano. Si configurano, infatti, nel rapporto terapeutico una quantità tale di combinazioni economiche che non possono essere ridotte alla sola e triste economia di mercato cui il nostro universo capitalista ci ha abituato (soldi in cambio di prodotti o servizi), ma che necessariamente debbono concepire questo scambio anche, ad esempio, nell'ambito dell'economia del baratto (ti dò se mi dai) e dell'economia del dono (ti dò senza nulla pretendere).
Quando poi si scambia una merce-non-merce che si forgia di materie come il sapere, l'attenzione, l'affetto, l'intimità, la fiducia, la fragilità, etc. (tutti elementi che dovrebbero essere parte intrinseca della cura), dobbiamo osservare l'anomalia di questi scambi partendo dal presupposto che la cura, per andare ad effetto, deve assumere un andamento circolatorio con curante e curato che, pur in modi diversi, danno e ricevono reciprocamente i materiali della cura; andamento che ci spinge ben oltre la classica dinamica di mercato dove un fornitore dà e un acquirente, pagando, riceve.
Se poi osserviamo l'accezione etimologica "cliente" ha addirittura il significato di schiavo (cliens è, infatti, participio presente di cluere che significa, appunto, “obbedire", “prendere ordini” -non a caso nell'antica Roma i clienti erano persone che, rinunciando ai propri diritti, si sottomettevano ad un patrono per averne la protezione), cosa che, forse, da questo punto di vista, lo rende ancor più inappropriato del lemma "paziente".
Né paziente, né cliente dunque.
A queste due tradenti definizioni il metodo LogoPaideia preferisce il concetto più ampio di "persona" che, dunque, a partire da questo post adotteremo per riferirci a coloro che, a diverso titolo, frequentano il nostro centro.
Con “persona” intendiamo (non differentemente da Rogers) porre al centro del nostro percorso di cura il soggetto in tutta la sua complessità; complessità che, proprio nelle relazione terapeutica, deve divenire manifesta, assumendo nuovi stati di consapevolezza di sé, delle proprie difficoltà e degli strumenti per superarle.
Il termine "persona", per altro deriva dal latino personam (per-sona) e stava ad indicare una particolare maschera teatrale attraverso cui risuonava (per-suona) la voce dell'attore.
Si apre qui l'aspetto finzionale della cura su cui avremo modo di riflettere a lungo ma, soprattutto, si manifesta nel lemma "persona" la possibilità di ognuno di fare suonare, risuonare, quel molteplice "se stesso" che siamo in tutte le sue più diversificate melodie, anche, e forse soprattutto, quelle apparentemente (socialmente?) più stonate (più malate, direbbe forse qualcuno), ma che, forse, proprio per questo, meritano di essere ascoltate con più curata attenzione affinché, anche il suono più strano, possa essere accolto, compreso, capito, integrato.
Per questo nel centro LogoPaideia vogliamo e accogliamo persone non pazienti.
Massimo Silvano Galli
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