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Una poesia senza parole: le vecchie canzoni

Creato il 05 agosto 2011 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

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…il fiume manda il profumo dell’inverno e chiude agli argini le vesti della giovinezza e racconta mentre scorre, le gioie perse delle donne che aspettano invano un gesto d’amore e che sognano di danzare con le mani sul seno alla luna, che ignara illumina ancora la pianura. Ferma come soldato di vedetta l’ultima ghiandaia saluta la stagione e volando tra le nuvole basse ritma suoni conosciuti e magie risapute di questa terra senza tempo, di questa terra che conosce il passato del suo presente e rinfaccia da sempre il futuro a quelli che hanno il coraggio di scappare.

“Sai cce turmentu ca me da la luna, lu ssire ca me fa alla mezzanotte”, canta Ndeddha nella rimessa.

E la sua voce si mescola alla voce dei lavoranti nel forno del padre e alle bestemmie che arrivano dalla bottega dellu Bbinu, che da secoli mesce sangue e mieru, dentro bicchieri troppo piccoli per svuotare tutta la fatica di giornate a giornata. Padre Neno invece mescola sudore e bravura sulla spianatoia del tavolo vecchio e tira in ballo Santu Nicla ogni volta che il forno scoppietta più forte, e vampe di calore infernale si dirigono sulla pelle nuda e rugosa dell’anziano fornaio.

Ndeddha, per cortesia, metti l’acqua nelle menze quartare che serve per l’impasto, che non posso lasciare”, disse padre Neno alla figlia che nel frattempo rimette ago e filo nel cassetto della madia e corre con le brocche di creta alla fontana davanti alla piazzetta della Torre.

Il fiume intanto si è rimesso a mulinare acqua alla povera vita del paese e scorre come sangue nelle vene sino alle caviglie della vergine e passa indisturbato sulle chianche delle aie a creare strilli di ragazzini divertiti.

Idro come acqua, come vita, come passione tra gli argini, nelle arterie di una città martoriata da anni di guerra e malattie. Ora la pace segna le giornate e la gente ha di nuovo il gusto di sedersi sull’uscio a reclamare quel poco di vita che le resta, a dimostrare all’altra gente di essere ancora gente di questa gente. Ecco che da una di queste arterie si leva il suono di un tamburello e la voce di un cantore si fa decisa e dalla bottega di Bbinu d’istinto si associa, a quella improvvisazione, un violino e U’Pati comincia a soffiare in un’armonica gialla ed accompagna sorridendo la voce di U’Ntoni, il cantore.

Arriva trafelata Agostina con in mano un fazzoletto rosso e chiama tutti gli astanti a fare ronda intorno ad Anita che buttata pancia a terra, muove cadenzando le braccia e le gambe ed arcua il petto per far passare il diavolo immaginario. U’Pati rilancia con l’armonica una musica più forte e lu Bbinu gli viene dietro con un’improvvisata ritmica composta dal mestolo e da una padella per i pezzetti.

Anche il fiume balla e suona e da lontano si ode il mare che si diverte a quei suoni e minaccia, padre di tutti i padri, per la nottata, solo bonaccia.

“Dove sei,diavolo dellu maletiempu? Esci da dietro lo scoglio e vieni a morire per sempre, qui dove nascono le fanciulle più belle ed i fiori più colorati e la danza più vera. Dove sei taranta de terrarussa, che porti con te dolore e morte? Esci dal sangue della vergine più santa e fai tornare la luce negli occhi di questa pianura”.

Ndeddha guarda U’Pati che soffia sempre più divertito con la bocca incollata all’armonica. Sogna, Ndeddha, sogna di essere quell’armonica, di essere quel piccolo strumento nelle mani forti di quell’uomo grande e grosso che sapeva abbracciarla e che sapeva toccarla, e che sapeva accarezzarla così delicatamente, con quelle dita enormi e callose da pescatore, che sembra nato per fare quello solo.

“Fermate la musica” – si sente venire una voce dal balcone del palazzo del Capitano – “vogliate attendere un momento. Munira vorrebbe partecipare alla festa”, dice l’uomo.

-“Quale festa?” -risponde lu Bbinu, da dentro la bottega del vino- “stiamo solo cantando qualche vecchia canzone”.

“Le vecchie canzoni sono le uniche voci che ci rimangono del passato e conservarne le parole è come conservare la vita”, disse Munira ed inizia a ballare agitando sensualmente le braccia e la testa appena la musica riprende.

“Ti vorrei rapire”, furono le ultime parole che U’Pati pronunciò quella sera prima di sfiorare con la mano il seno di Ndeddha e spingendola dietro la vigna dellu Bbinu che dava le spalle alla Torre di Mezzo, l’amò delicatamente come solo lui era nato per fare…


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