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Una poesia senza parole: Un morso di pane prima di dormire

Creato il 27 luglio 2011 da Cultura Salentina

di Lele Mastroleo

…si è acceso un faro laggiù sulla Punta di Mezzacapra, tra lo scoglio dei preti e la colonna del Mungurune e soffia la quiete nella baia della via del sale, e nel mentre, inganno la metà grigia del mio fantasma cantando una nenia:

…gira la luna sulla mia faccia Iddio di tutti i sentieri che non vedrò mai, e fammi trovare, in questa stupida notte di vento largo e di macerie, l’unico sorriso che ho perduto tra le pietre. Qui dove spunta il sole prima che altrove, ho venerato la gioia e la paura, qui ho imparato ad amare, o almeno ho iniziato a farmi mancare il respiro, qui dove tutti i racconti del mare finiscono in tragedia, dove tutte le storie di terra sanno di eroi e mostri, qui ho imparato a mettere da parte il frutto dell’estate e farne salute e ricchezza nell’inverno e ho diviso il sangue dalla storia, l’anima dall’affetto, la libertà dalla famiglia e ho fatto scolpire sulla lastra della mia giovinezza una sola parola: morso…

Morso, come eroso, di quello scoglio dietro la Torre di Mezzo che la marea formava, ora dopo ora, in una scultura deforme; come il vento salato che strinava le labbra dei pescatori e l’invecchiava già bambini. Morso,come pezzo di pane, da mangiare in fretta sul fare dell’alba prima di prendere il mare, come strappo dei cavalli che segnava la durezza dell’incolto e il sudore di faugno della Messapia. Morso, come lembo di terra, davanti a casa, che ha condiviso i tuoi giochi di bimba e il tuo scoprirti donna e femmina allo stesso modo. Morso, come quello dei denti che lacerano i polsi delle tue braccia alla notizia, quella breve parola che non ti poteva appartenere. No, Agostina, quella parola “scomparso” tu non la conosci e non capisci perché ti stanno ripetendo ad alta voce quella strana cosa, quella lagna assurda e ridicola che non potrà mai essere vera.

Eppure lo aveva sempre lì, con quella faccia da dio greco e quella luce negli occhi che sembrava gentile anche la fatica, sembrava sottile ogni amarezza. E’ il mio uomo, pensava, e il mio uomo non può essere scomparso. Scomparso è solo una parola. E’ uno sbaglio della storia. E’ un taglio. Una ferita. E’ solo una piccola lacerazione che si chiuderà quando tornerà dal mare. Quando attraverserà, fiero come al solito, distaccato da quello che succede attorno a lui, la salita del porto e non si volterà indietro a guardare il mare, quel fedele campo di battaglia, sicuro che il mare lo sapeva ancora, figlio suo.

Agostina spostò la sedia da dietro la porta d’ingresso e spalancò le due ante facendo entrare in casa le voci della sera, le confessioni malcelate, il rossore dei bambini e le controversie della luna salentina, che gira la faccia dall’altra parte quando il gioco si fa tragedia.

Adesso U’Mecu era bambino. Lo ricordava così Agostina, seduta su una sedia di paglia fine, messa inclinata sull’uscio di casa e con le gambe rivolte al cielo a tutelare quella creatura che le comprimeva la carne in un unico battito del cuore…

Dove sei U’Mecu della nostre mattine, quando passi a prendere il sorriso e me lo porti a letto fin sotto le lenzuola? Quando tiri su quelle spalle enormi e ti porti via l’odore della notte ed il sapore delle mie carezze?

Non avevo mai visto le spalle nude di un uomo prima delle tue, anima dei miei tormenti, e non avevo mai sentito il brivido sacro nello stomaco che riempiva di gioia le lacrime e riempiva di fremiti ogni tuo abbraccio.

E dove sei ora che non mi basta pensarti e non mi bastano più le risposte della gente e delle donne vestite di nero che bussano alla nostra casa e fanno domande a cui non so rispondere? Dove sei sole che copre i campi e che fa rintanare le serpi e la dulcamara, dove sei andato a morire in questa lurida sera fatta di dolore e miseria? Torna ti prego, torna con lui, torna a trovarmi, riscaldami la faccia e le mani, scalda il mio petto e fallo caldo ed odoroso affinché lo possa trovare accogliente al ritorno e faccia nido di rindineddha tra le mie cosce…

Adesso U’Mecu era bambino. Lo ricordava così Agostina, tra le strade di Idro a rincorrere la lucertola primaverile, tra le pietre irsute della Torre di Mezzo e sul ballatoio della casa antica di nonno Bbinu, dove di nascosto dal fratello che vigilava sulla sua “santità” finiste per darvi una carezza leggera con le mani, con la paura reciproca di non sporcare quell’emozione.

Era bambino, con tutti quei ricci che si increspavano sul collo e quelle corse con il sorriso eterno tra le labbra che non lo avrebbe mai abbandonato per il resto dei suoi giorni. Era bambino, U’Mecu in quella città dove il sole preferisce i sassi ai cristiani e rende perenni gli scaccomeriggi di afa e tigna e che ci fa crescere tra le volute e le arcate delle nostra bellezza, ma ci costringe a morire sotto un sole diverso a migliaia di miglia dall’albero della vita.

In quella città dove ogni fame è fame eterna e che niente e nessuno riesce a calmare. Neanche un morso di pane prima di dormire….


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