foto di Manuela Merlo
La violenza di genere non trova negli organi di informazione, locali e nazionali, quella considerazione professionale e valutazione di rilevanza sociale necessarie a rafforzare, nel sentire popolare, il senso profondo e reale di lesione di beni primari, costituzionalmente riconosciuti, quali l’integrità fisica e psichica e la libertà di autodeterminazione delle donne. Accade che gli organi di informazione agiscano, in maniera dolosa, sulla coscienza collettiva con una specifica responsabilità, intesa come “Consapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti e modo di agire che ne deriva” (Giovanna Vingelli).
“Conta persino che ogni titolo di quotidiano insista nel definire “delitto passionale” l’omicidio di una donna per mano del suo uomo, come se la morte fosse amore portato alle sue estreme conseguenze.” (da Ave Mary, di Michela Murgia). Vengono i brividi ogni volta che si fa riferimento, nei casi di violenza di genere e femminicidio nei giornali, alla “passione” e all’”amore”, come se questi potessero essere attenuanti che rendono i crimini piu’ efferati comprensibili , fin quasi a trovarne una giustificazione sociale, alla sensibilità popolare.
Accade, anche, che alcuni quotidiani locali dedichino ampio spazio a versioni unilaterali di noti personaggi condannati in primo grado per stupro, facendo scomparire del tutto i veri soggetti della narrazione: la violenza, le donne .
Il 21 agosto, ad esempio, a pag.10 del Quotidiano della Calabria compare una (altra) lunga intervista a Fedele Bisceglia, condannato in primo grado, “Di ritorno da Medjugorje il religioso parla per la prima volta della sentenza. L’incontro sulla spiaggia di Campora.«Perdono anche i giudici»”. Un lungo, ed autogestito, delirio sull’impegno missionario dell’ex frate che prosegue indefesso, sulla “Divina Provvidenza” e la Madonna che lo “aiuta nel cammino di santità”.
Esemplare il riflesso mediatico e pubblico della vicenda processuale di Fedele Bisceglia e la percezione sociale della violenza di genere che ne è scaturita, attraverso gli organi di informazione e la collettività. ““…La vicenda dell’ex frate e della suora è emblematica di una città di provincia che si chiude a difesa delle proprie presunte certezze: è la storia che ha tutti gli elementi del boccaccesco immaginario del frate benefattore e della suora “brutta, bassa e tozza….” “” mi ha detto un’amica cosentina. A me, che invece sono catanzarese, da una esclusiva lettura dei mezzi di informazione, la città che da sempre immagino come la piu’ illuminata tra tutte le città calabresi, non appare altro che un paese di campagna che si stringe attorno al curato, pronto ad assolverlo perché “alle brutte, cosa mai sarà lo stupro di una suora, per giunta forestiera, rispetto a tanto bene fatto, per giunta a piedi scalzi?”. Figurarsi le altre, di città calabresi, si chiederà qualcuna.
Ma le cose, forse, potrebbero non essere come appaiono.
Il silenzio, seppure per rispetto della vittima e della sua dignità , come è anche stato sussurrato, non è, in situazioni come queste, scelta praticabile e sensata. C’è pero’, come ho avuto modo di appurare, chi in silenzio non ci sta ma viene silenziata.
Giovanna Vingelli ha raccolto negli ultimi due anni numerosi articoli, dalla stampa locale, che trattano di casi di violenza di genere ed ha analizzato circa 100 articoli di quotidiani locali relativi alla vicenda processuale che ha visto la condanna in primo grado di Fedele Bisceglia .
G. Vingelli rileva come l’attenzione dei professionisti della informazione sia rivolta quasi esclusivamente a dettagli riguardanti la vita privata delle donne, mentre la figura dell’aggressore rimanga avvolta nell’ombra; di come minuziose descrizioni di stupri e violenze siano accompagnate da “rappresentazioni” dello stato emotivo della donna banalizzanti e superficiali; di come, attraverso l’uso di frasi all’apparenza casuali ed innocue, vengano instillati dubbi sulla veridicità delle violenze perpetrate, perché in fondo (e neanche troppo in fondo) è la donna che deve provare che non sta mentendo, è la donna della quale si valuta l’attendibilità e se ne tenta il discredito, soprattutto quando l’uomo violento non è extracomunitario o straniero (il mostro) ma, come avviene nella maggior parte dei casi ha l’aspetto di una persona rispettabile e/o ha una posizione sociale che gli viene riconosciuta dalla collettività.
Quest’ultima cosa avevo rilevato, ad esempio, nell’articolo di P. Petrasso, sul Corriere della Calabria, numero 3 del 7 luglio (scritto prima del verdetto del Tribunale), nel quale si parte dalla constatazione di una serie di “perplessità” definite “diffuse” circa la possibilità che stupri brutali e violenze di tali gravità si siano consumate nell’Oasi nella totale inconsapevolezza altrui e ci si chiede come abbia fatto la suora a scegliere di non abbandonare la struttura francescana dopo essere stata stuprata ["Puo' bastare la sola regola dell'obbedienza a giustificarlo?" pag.38].
Cio’ che continua ad essere messo in evidenza dalla stampa, e dalle piu’ disparate testimonianze (dalle piu’ illustri alle piu’ comuni) raccolte, non fa altro che contribuire a ricostruire e restituire l’autorevolezza di Fedele Bisceglia.
C’è bisogno “di una battaglia culturale che ribalti lo stigma che trasforma in potenziale bugiarda e in potenziale colpevole la donna che denuncia di aver subito violenza. E dovrebbe porre alla nostra riflessione le implicazioni di dominio che sottendono la violenza sessuale e gli aspetti di complicità, diretta e indiretta, ancora socialmente presenti nei confronti della violenza contro le donne.” (G.Vingelli). Di questo e del modo in cui vengono raccontati casi di violenza alle donne, che rispecchia i contenuti di una cultura che continua a proporre antichi stereotipi e pregiudizi sui “ruoli” degli uomini e delle donne nei casi di stupro, omicidio e maltrattamenti in famiglia, ha parlato la Vingelli il 19 luglio in un incontro, avvenuto a Cosenza, per la presentazione del libro di R. Grandinetti ‘Suor T contro Padre Fedele – Violenze e complotti agli occhi di Dio e del Popolo italiano’ (presenti F.Corbelli, G.Vingelli ed i due difensori di F. Bisceglia).
Da notare che dalla lettura del resoconto dell’incontro fatto dal Quotidiano della Calabria (del 20 luglio 2011, pag.14) , risulta che:
“Ad essere presenti in sala tantissimi cittadini, ed esponenti dei movimenti, da sempre impegnati nel difendere l’ex frate >tutta la città è cosciente dell’innocenza, di uno degli uomini piu’ buoni che abbia mai lavorato a Cosenza e per Cosenza< commenta Giancarlo, un tifoso del Cosenza calcio”
Eppure, chi è stata presente sa che il dibattito e gli interventi, anche molto duri, non sono stati –tutti- in direzione di quel meccanismo assolutorio ed autoassolutorio della collettività che propone il Quotidiano. Perché allora è stata rimossa (anche) la voce di donne (autorevoli) dal dibattito che è seguito agli interventi ? Problemi di spazio? Sicuramente no.
Nominare la violenza anziché rimuoverla: piu’ che un esercizio di stile, una pratica sociale necessaria.
[Vedi anche: Quanto conta la parola di una donna, di Franca Fortunato ; Lettera di un'infedele di Anna Pascuzzo , A conti fatti , Comunicato Centro Lanzino ]