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Una rosa rossa per Edoardo Sanguineti

Creato il 20 maggio 2010 da Retroguardia

Una rosa rossa per Edoardo Sanguineti

[Cacacazzo, opera di Enrico Baj]

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di Giuseppe Panella

 

Non è ancora il tempo delle sintesi nette e definitive, forse neppure di analisi troppo dettagliate riguardo la natura dell’impresa poetica e culturale di Edoardo Sanguineti.

Questa mia attuale vuole essere soltanto una breve riflessione a caldo, sull’onda di una morte improvvisa e forse evitabile (come spesso accade nei Pronto Soccorso e negli ospedali non solo in terra d’Italia). Sanguineti è stato un poeta che ha lasciato il segno (e non solo nella mia esistenza intellettuale). E’ stato sicuramente un personaggio di alta levatura e di forte carismaticità.

Non posso dire di essere stato intimo di Edoardo Sanguineti. L’ho incontrato e ho parlato con lui solo due volte ma si è trattato di momenti molto intensi (almeno per me).

La prima volta è avvolta ancora in una sorta di alone da momento magico, di quelli che restano nella memoria e durano poi a lungo.

Era il 1 maggio di tanti, troppi anni fa (il 1982 – chi se lo ricorda più). Con due amici che avrebbero in seguito imboccato strade diverse dalla mia nel proseguo delle loro esistenza, ero andato a Mantova per la prima volta.

Una città stupenda (poi in seguito visitata tante altre volte), un sole splendente di primavera piena e consolante, great expections dei ventiquattro anni da poco compiuti…

In Piazza della Concordia, nel Palazzo della Ragione c’è in allestimento una mostra che ci incuriosisce molto. Non è questo il motivo per cui siamo là (assai più prosaicamente ci siamo andati per i tortelli di zucca, davvero magnifici, e per una sortita in un luogo mito, il Bar Sgaravatti che distilla un proprio aperitivo “americano” di alta classe) ma tant’è. Dopo un pranzo sostanzioso, siamo i primi a entrare e vediamo Enrico Baj, grande artista da tempo vagheggiato, anarchico e sentimentale. La mostra di quel giorno riguardava l’Apocalisse ed era composta da una serie di grandi pannelli di legno sui quali erano squadernati alcune delle sue realizzazioni più importanti destinate a passare nella leggenda metropolitana che lo concerneva. Ad esempio, veniva esposto il poi successivamente mitico pannello del Cacacazzo. Baj attendeva a quel lavoro dal 1979 e in quella mostra del primo maggio ne presentava i risultati. Era alto, massiccio, con un corretto vestito azzurro e una maestosa cravatta rossa che era la prima cosa che si notava. A fianco, c’era Sanguineti, minuto, asimmetrico, con la sua faccia un po’ informemente disposta all’attesa, un po’ simile a quella del Principe Totò. Un po’ trasandato, anche, rispetto al composto anarchico Baj.

L’inaugurazione della mostra era compito suo (Baj parlò poco o niente).

Lesse un Alfabeto apocalittico stampato per l’occasione che presentava un tour de force linguistico straordinario (me ne accorsi quando cercai di imitarlo anni dopo). Ogni poesia presentava otto versi composti tutti di parole che iniziavano con la stessa lettera fino a comporre un alfabeto completo.

Cito la lettera H per dimostrarne la natura irta e complessa di sforzo (forse sfoggio?) di bravura (Sanguineti lo avrebbe ripubblicato nel 1987, presso Feltrinelli di Milano, in un volumetto intitolato ermeticamente Bisbidis):

«humano è all’homo habere & non haberi, / hoc est humano, est hodie & erat heri: / homo st humo, che humano è humilmente, / hapax est homo, humano humanamente: habito di humo, ci è l’homo habillé / homo è hôtel di homo, di hoc home habitué: / habe humo l’homo, in humo handicappato, / habitat gli è humo, & da humo è habitato» (p. 88).

Cito anche un frammento della C per mostrare le consonanze esistenti tra Sanguineti e Baj:

« […] crocida il corvo, cuculia il cuculo, / chiucchiurla il chiurlo & crepita col culo: / cecato mi è il colòn, cacato ho il cazzo, / cessa ‘sta cantilena, can cagnazzo» (p. 83).

Le volute volgarità del testo occhieggiano al Dante dell’ Inferno e il (falso) latino medioeval-volgare delle hacca rimbalzano in un percorso che attraversa volutamente una voluta dimensione auto-ironica di denotazione culturale per approdare alla danza ritmata del significante.

Sanguineti lesse, drammatizzò, enfatizzò, teatralizzò, trionfo – dopo gli applausi del pubblico, prima di andare via, andai a parlargli. Sanguineti ascoltò le mie parole (era una proposta di collaborazione per una rivista, Prassi e Teoria, che allora si faceva a Pisa e alla quale collaboravo assiduamente ma scrivendovi pochissimo), firmò il fascicoletto dell’ Alfabeto apocalittico con una dedica “a Giuseppe Panella, teorico & pratico” (ovviamente lo conservo ancora chissà dove), mi invitò ad andare a trovarlo a Roma al Parlamento dove si annoiava e “doveva pur andare a pranzo da qualche parte”. Io promisi ma poi non andai ; quando la collaborazione con la rivista sembrava essere giunta a maturazione (ce ne devono essere rimaste tracce – lettere, articoli di giornale da trasformare e ampliare, possibili bozze di saggi – nell’archivio del professor Domenico Corradini di Pisa, a Filosofia del Diritto) lui non era più alla Camera dei Deputati e non ci sarebbe tornato più. Dopo uno scambio epistolare piuttosto intenso (le mie erano lettere lunghe, le sue brevi biglietti), lo persi di vista.

L’ho ritrovato a Prato, al Museo “Pecci” di Arte Contemporanea, in un incontro organizzato dalla Scuola di scrittura “Grafio”, nel 1996. Sanguineti tenne una conferenza animatissima su città e poesia (con incursioni sul rapporto tra musica – rock, ovviamente!, era quello che gli interessava di più in quel periodo). Dopo gli applausi e la conclusione, andai a salutarlo. Di me non si ricordava più, naturalmente, ma poi venne tutto a galla e ci furono un po’ di rimpianti da parte di tutti e due per non esserci più sentiti e per la rivista che, nel frattempo, era defunta (da un bel po’, peraltro).

Poi parlammo un po’ della poesia italiana, dei vecchi e dei giovani, della critica imbelle e di quella militante. Pochi minuti, però, perché Sanguineti doveva rientrare a Genova ed era già un po’ stanco.

In altre occasioni in cui avrei potuto rivederlo (alla “Pergola” a Firenze, ad esempio, dove veniva messo in scena con esito pessimo un suo pur profetico Il mio amore come una febbre e mi rovescio, realizzato con Andrea Liberovici e poi pubblicato a Milano da Bompiani nel 1998) non andai e forse lo rimpiango solo ora.

Le sue opere più significative, quelle in cui faceva i conti con una tradizione italiana egemonica e totalizzante e cioè quella lirica, facendola decisamente a pezzi, sono certamente le prime da Laborintus del 1956 (“quasi laborem habens into”) a Wirrwarr del 1972 e Postkarten del 1978.

In esse il tentativo di conciliare scavo e strazio della lingua della tradizione italiana si fondeva con l’emergenza dell’inconscio come macchina semantica in grado di dare voce a ciò che sarebbe, di solito, rimasta nascosta e inascoltata.

La frantumazione del punto di vista (contenuta, ad esempio, nei testi di T. A. T. legati ai celebri test di Rorschasch contenuti in Wirrwarr, un titolo questo di ascendenza benjaminiana) e lo scavo interiore personale legato alle Postkarten di viaggio sono emblematiche di un progetto spesso riuscito di de-costruzione della lingua poetica italiana.

Come poeta, sono – a mio avviso – a ricercarsi là i suoi migliori contributi al rinnovamento di un linguaggio divenuto ormai asfittico e inquinato dall’ideologia della mancanza di ideologia.

In sostanza, scrivere poesia utilizzando il testo come cartina di tornasole di un progetto di pensiero poetante che scaturiva dal profondo dell’inconscio permetteva di superare le barriere del neo-realismo o del sincretismo lirico della tradizione ermetizzante ha permesso a Sanguineti di sondare tutte le possibilità di una lingua, quella italiana, che era profetizzata come già morta.

Il risultato è stato spesso pregevole, talvolta un po’ troppo sfinito per essere realmente efficace, talvolta incapace di comunicare adeguatamente il senso di spiazzamento culturale e umano che volva imporre per forza di lingua. Come aveva scritto nella poesia sulla lettera P dell’Alfabeto apocalittico già citato prima:

«[…] poesia prosaica, pratica permessa, / penna mi sei, sei piuma, & pia promessa» (p. 94).

Poesia prosaica e prosa poetica insieme, la densità della sua scrittura non si è si è mai smentita anche quando sembrava ancorarsi al puro ribaltamento del significato in prassi del significante.


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