La grotta di Pindaya
Un'altra scala di gradini infiniti, balze regolari che misurano il tuo rapporto con l'eternità. Uno zig zag tranquillo, un poco maligno, perché non ti lascia intravedere la fine della rampa successiva, illudendoti ogni volta che sia l'ultima, ma sempre coperto da un tetto in modo che tu possa percorrerla senza scuse anche quando la pioggia scrosciante del monsone impedisce la vista delle colline vicine, verdi, rigogliose di tanto afflato naturale. In cima, lontana, quasi irraggiungibile come l'illuminazione, la caverna popolata di migliaia di figure replicanti di se stesse, la infinita reiterazione del Buddha, che l'ansia di salvazione dei fedeli aumenta in continuazione fino a riempire in un orror vacui senza tentennamenti, ogni angolo, ogni anfratto segreto, coprendo concrezioni, stalagmiti a cui è strozzata la crescita, depositi di milioni di anni. Ma cosa saranno mai di fronte agli eoni dei Buddha del futuro. Bisogna farsi forza però, la scala del paradiso è lì davanti che ti chiama con quella malia che hanno solo i luoghi della santità. Forse basta seguire quei monaci che guardano verso l'alto con occhio sereno. È la saggezza di chi all'illuminazione è già molto vicino, infatti girano intorno alla scala con la certezza di chi sa, di chi è lontano dal dubbio. Subito dietro, infatti, si apre un'altra porta, quella dell'ascensore che porta direttamente alla caverna di Pindaya, a un passo dal cielo. Li seguo con passo felpato, mai contrastare il pensiero profondo della saggezza.