di Iannozzi Giuseppe
Gli tapparono la bocca. Una mano ruvida e pesante gliela chiuse. Ogni tentativo di gridare gli fu impossibile. Poi gli legarono mani e piedi. In ultimo lo imbavagliarono.
Valerio riuscì solamente a squittire una parola senza senso, in quella frazione di tempo che la mano si allontanò dal suo volto. Nient’altro.
Gettò furtive occhiate a destra e a manca, frastornato: erano in tanti.
Non avevano la faccia coperta.
Nel quartiere li conoscevano tutti, erano quei gran figli di puttana de Il Rosso e il Nero.
Il Rosso e il Nero erano famosi, tenevano tra le loro fila sia bolscevichi stalinisti, sia nazifascisti.
Per essere nelle loro grazie dovevi essere violento e intollerante contro ogni forma di legge e giustizia, religione e credo, nazionalità e verità: l’intolleranza e la violenza, solo queste qualità erano richieste.
Se lo caricarono come fosse un tappeto, senza nessun riguardo.
Se la ghignavano sotto i baffi.
Non era buon segno.
Era sicuro che qualcuno, affacciato alla finestra, avesse visto tutta la scena. Ed era altrettanto sicuro che nessuno aveva visto niente se gli fosse stato chiesto.
Era rassegnato.
Il gruppo era bello focoso, cantavano a voce alta, erano più stonati di un coro di rane sotto una pallida luna settembrina.
‘Fanculo.
Era il crepuscolo.
Il sole calava dietro un mare di cemento, di asfalto bollente, di carne umana sudata e puzzolente.
Incontrarono un paio di coppie, che non fiatarono. Anche loro non avevano visto niente.
Valerio era marcio di rabbia: in tivù quella sera davano la partita. L’avrebbe persa; non c’era speranza che lo ammazzassero di botte, in tempo prima della fine della partita. Gliele avrebbero suonate di santa ragione per tutti i novanta minuti della partita.
Non gli andava proprio giù: un nodo alla gola gli stringeva il fiato, era proprio da pirla perdere la partita in modo tanto stupido.
Finalmente lo sbatterono a terra.
Il corpo sollevò un po’ di polvere, ma niente di che.
Valerio aspettava con gli occhi sgranati che iniziassero i calci e i pugni.
Niente.
Uno grosso, cioè grasso e pelato lo slegò. Non gli tolse il bavaglio.
E dopo averlo slegato gli strappò la maglietta di dosso, e poi i pantaloni. In ultimo ci provò con le mutande, ma l’elastico resistette abbastanza bene. L’elastico si allentò soltanto, lasciando scivolare le mutande imbollettate lungo le gambe, fin sulle nude caviglie.
Tutti ridevano.
Non volevano picchiarlo.
L’avrebbero usato come una donna.
Che palle! Mai che avessero un’idea un po’ originale.
Il più mingherlino della gang gli sputò addosso, per subito gridare che si sarebbero divertiti con lui. Aveva gridato la minaccia tutto divertito, evidentemente era un finocchio, come tutti del resto.
“Te lo metteremo in culo, in bocca, nelle orecchie se sarà necessario. Ti staccheremo pompini su pompini e te li faremo staccare ai nostri cazzi. Non avrai un attimo di respiro, te lo giuro su Dio.”
La minaccia fu subito attuata: uno glielo ficcò su per l’ano, un altro prese a ciucciarglielo e un altro ancora glielo cacciò in bocca fino a sfondargli la gola quasi.
Andarono avanti ripetutamente: gli vennero in bocca almeno una ventina di volte e tutte le volte lo costrinsero ad ingoiare. Dopo i primi tre orgasmi il suo uccello si rifiutò di sborrare ulteriormente, così si dovettero accontentare di prenderglielo in bocca e leccargli la cappella con le loro linguacce brune come un fegato malato. In culo lo prese così tante volte che ad un certo punto Valerio smise di contare quante.
Il buco anale gli prudeva.
Era sicuro che fosse più irritato di un diavolo a rosolare all’inferno.
Si rallegrava però del fatto che non soffriva di emorroidi: sarebbe stato un bel guaio in quella porca situazione.
Ma se pensava che la partita oramai era persa, un veleno, un veleno rabbioso gli scavava le viscere.
Porco Dio!
Lo abbandonarono in mezzo alla polvere.
La sabbia gli era entrata in bocca.
Sputò più volte.
Odiava il sapore della terra, di tutta quella terra dove di giorno ci passano tutti coi cani per farli pisciare e cagare.
Li odiava per questo, tutti quelli coi loro cani bastardi. Che pisciassero in casa, invece di innaffiare i giardini pubblici con il loro piscio. Che cagassero nel piatto del padrone, invece di fertilizzare le aiuole del suolo pubblico.
Il sapore della terra faticava a stemperarsi nel palato di Valerio.
Oramai era notte fonda. La partita doveva essere finita da un bel pezzo.
‘Fanculo.
La luna gli faceva l’occhiolino da dietro un balconcino di illibate nuvolette.
Cacciò fuori un urlo animale che svegliò tutti i diavoli dell’inferno: “Porco Dio, potette farmi qualsiasi cosa, ma non farmi perdere la partita, grandissimi figli di puttana… Me la pagherete. Dio porco se ma la pagherete di brutto, bastardi che non siete altro.”
Continuò a sfogarsi così.
Perse la cognizione del tempo.
La smise solo quando si rese conto d’essere terribilmente stonato, più d’una rana presa a calci in culo. Questa verità lo fece tacere.
Si tirò su le mutande: l’elastico era rotto, non si reggevano da sole, c’era bisogno che le tenesse su con una mano.
Si tastò il sedere. Ce l’aveva sporco di sperma, di merda e di sangue.
Si guardò intorno alla ricerca di un pezzo di carta. Ne adocchiò uno, un bel foglio di carta, strappato da una locandina pubblicitaria. Recitava: l’OTTO per MILLE alla Chiesa Cattolica.
Lo raccolse come fosse la piuma dell’Arcangelo Gabriele, e ci si pulì con la massima cura il culo.
Era ruvida quella carta lì, porca puttana!
Finì di pulirsi il culo, nonostante la carta fosse dura, ruvida, inadatta. Tuttavia doveva accontentarsi di quel che passava il convento: o la carta della pubblicità o un bel ciuffo d’erba.
Tutto sommato meglio la carta della locandina, per quanto dura.
“Dilettanti, stramaledetti dilettanti!”
Sputò ancora e ancora: la terra in bocca non gli era mai piaciuta, gli dava la nausea.
Tenendosi su le mutande, con le sole scarpe da tennis ai piedi, s’incamminò verso casa passando accanto a una signora di mezza età con un terrier al guinzaglio. Probabilmente lo stava portando al parco per fargli fare i suoi bisognini. Ma Valerio manco la vide la donna con il cane, incazzato nero com’era: la partita l’aveva persa ed era già quasi mattino fatto, Dio cane!
Dio cane, in camera sua ce l’aveva un manganello, uno di quelli belli grossi, e anche la tessera del partito era lì: per prima cosa la tessera gliel’avrebbe sbattuta in faccia ai Rossi… servirsi del manganello nero e duro non sarebbe stato un problema, doveva solo pensare a come farlo fruttare al meglio. Per il momento doveva ancora smaltire la rabbia: l’aver perso la partita non gli andava proprio giù. Inutile.
Non gli andava proprio giù, neanche di traverso.
Tutto ma non la partita. La partita è santa per chiunque.
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