Così Etenesh si fa emblema di una miriade di viaggi, sunto triste dello sfruttamento e della violenza. I convogli attraverso il deserto, soffrire la sete per un tozzo di pane in più. Magari nero, alla meglio rancido. Un sorso di acqua calda che imprime a fuoco ancor di più il significato della sete. E sulla carta, nelle sembianze tratteggiate su sfondi preminentemente scuri, Castaldi rende il dolore ancor più vivo e bruciante. Un marchio d’infamia impresso sulla storia contemporanea come nuova forma di schiavitù, una tratta gestita da uomini senza morale e con scrupoli ben al di sotto del consentito. Criminali e militari, tutti insieme, tutti coalizzati. Tutti elementi della stessa cordata di sofferenza opportunistica che fa leva sui soldi, sulla corruzione, sulla palese violazione di ogni forma di diritto umano.
Visto in quest’ottica, il testo di Castaldi ha il merito di divenire un manuale, capace di rendere, attraverso la personalizzazione di una sola storia, l’epopea di migliaia di persone. Una feroce traversata condita di violenza, dignità stuprata, umiliazione, morte. Di esseri umani ridotti all’osso dal calore del sole e dall’impietoso gelo della notte desertica. Le cicatrici sono la loro forma di resistenza vissuta, la dimostrazione di un dolore sovrastato con la sola forza della tenacia. Etenesh, quindi, è una di loro. Lei, novella Ulisse, in fuga per aspirare al sogno di una vita migliore, sacco in spalla con tanto di foto di famiglia, ammansita dalla bieca crudeltà, sull’orlo della follia e sempre costretta a recuperare quando tutto pare rovesciarsi in peggio. Clandestina per scelta. Clandestina ovunque, clandestina sempre. Prigioniera di un sogno che non sembra mai arrivare. Schiava del futuro, scintilla di un incendio divampa mai nei cuori chi tenta di avvamparlo. “Etenesh” è la verità mai raccontata, è il mistero rivelato e cautamente nascosto agli occhi dei bambini per non turbarne i sogni. “Etenesh” è come un predatore felino che ti rincorre e t’agguanta e t’aggredisce i sensi, li imprigiona e li fagocita a punto tale da fare di te un solo corpo con la sua essenza vitale, con le sue recondite ragioni, con i suoi istinti primordiali. “Etenesh” è rivincita, è vittoria dell’universalità, della fratellanza. In fondo basta tradurlo, quel nome vagamente esotico: “Tu sei mia sorella”. Un’invocazione, un’aspirazione, un reclamo.
Paolo Castaldi, “Etenesh. L’odissea di una migrante”, Becco Giallo 2011
Giudizio: 4 / 5 – Come una frustata
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