C’è un viale, e in fondo un cancello; e oltre il cancello un giardino, e in mezzo al giardino una casa.
Ora perdiamoci un po’ nei particolari, facciamo un riposante esercizio di fantasia, seguendo criteri non troppo razionali ma non per questo incoerenti. Stiamo scrivendo una storia sul Tempo, eppure deve essere una storia senza tempo; è questa l’idea, dunque dobbiamo cercare un’atmosfera surreale ma coinvolgente, un obiettivo concesso solo a una fantasia capace di lasciarsi andare.
Il viale è un viale di un quartiere residenziale. In termini di Tempo, dobbiamo subito chiarire che è un vecchio viale di un vecchio quartiere residenziale, e si lascia invecchiare vittorioso e placido, fiancheggiato da ippocastani ombrosi e protettivi. A terra, foglie gialle che nessuno è passato a raccogliere dall’ultimo autunno: un tappeto sontuoso che attutisce i passi. Nessuno sui marciapiedi, in questo momento. Gli abitanti delle case – vecchie case padronali stinte eppure ancora nobili – escono raramente, vecchi anch’essi, a volte impediti nelle gambe, o ormai noncuranti dei cambiamenti e appagati da un regime al minimo sotto l’occhio di una pendola rallentata e dietro le tende ingiallite delle poche finestre che ancora val la pena aprire.
Il viale termina a fondo cieco con un cancello, l’ultimo della strada. Questo cancello è alto, ma non facciamolo funereo: no, non ha niente che richiami un cimitero monumentale, anzi il ferro battuto è attorto in sinuose volute floreali e sembra invitare a entrare per scoprire le delizie di un eden. Varcato questo cancello – basta spingere e suscitare il suo antico cigolio – ci accoglie l’abbraccio di un giardino dimenticato, dove alberi maestosi e arbusti troppo cresciuti ospitano uccelli silenziosi in attesa dell’imbrunire, e le aiole hanno smarrito i loro confini per fondersi con l’invadente vegetazione spontanea, i muschi, i fiori selvatici. Si alternano profumi intensi di humus e tiglio, persistenti e ondivaghi come un astuccio di vecchia cipria dimenticata sulla toilette di una dama appassita.
E la casa, l’alta casa di pietra, la solida dimora di una stirpe, è anch’essa parte di quell’intrico, di quel tirannico abbraccio di edere inarrestabili e glicini sfatti che tutta o quasi ormai la riveste, arrampicando con cieca tenacia verso le tegole ondose e gli spenti comignoli del tetto.
Ma noi, che abbiamo ali, sì, ma di altra materia, lasciamo quel tetto e il più alto dei suoi comignoli alla cicogna che vi ha fatto il nido, e entriamo piuttosto nella casa, da quella soglia il cui marmo ha perduto lo splendore e si è arrotondato sugli spigoli ai passi delle generazioni che l’hanno varcata. Il portone si lascia socchiudere sul suo letto di foglie secche con un fruscio felpato, e all’interno ci accoglie una mezza luce calda, polverosa, che piove obliqua da qualche vetrata. Ci attende una successione di stanze in infilata, una di seguito all’altra, in una prospettiva sfumata che sembra non avere fine. Stanze tutte disabitate e spoglie, ma ognuna diversa per piccoli particolari: la posizione e le dimensioni del caminetto, le tracce sui muri dei mobili che vi erano stati addossati, il colore degli intonaci, ovunque sbiadito ma qua nei toni del grigio, là in quelli dell’azzurro o del verde veneziano o del giallo spento; e tuttavia non vale la pena indugiare sui colori, dal momento che ne sono rimaste solo ombre indefinibili. Tra una stanza e l’altra, nessuna porta; cosicché dalla prima si vede la loro fuga una dopo l’altra, come una via obbligata da seguire per raggiungere l’ultima, per quanto lontana sia, e l’ultima è infatti l’unica invisibile, dietro un battente chiuso, e per questo ci attira irresistibilmente. Quando appoggiamo la mano sulla maniglia brunita, sentiamo di essere sulla soglia del cuore della casa. E il cuore si lascia toccare.
La stanza è diversa da tutte le altre. È calda e viva. È zeppa di mobili, oggetti, tappezzerie. È come se gli arredi e i beni più importanti e irrinunciabili della casa fossero stati raccolti lì per essere conservati e vivere delle loro utilità ancora un po’. Sulle pareti, librerie stipate e quadri di famiglia; sulla mensola del caminetto, orologi e soprammobili; e poi tavolini, cassettoni, vetrine, tutto legno massiccio e zampe leonine, tappeti gloriosamente infeltriti, un divano damascato, cuscini color rosso cupo, una scrivania col piano in cuoio, tendaggi fastosamente drappeggiati e ingrigiti, collezioni di pipe e tabacchiere inglesi, anzi un senso diffuso e confortevole di collezione, di rifugio.
Il collezionista è lì, seduto su una poltrona al centro della stanza. Un vecchio in giacca di velluto, con lo sguardo rivolto a un cavalletto di fronte a lui. Sul cavalletto un quadro con chiazze lucide di pittura ancora fresca; i pennelli e i colori sono ancora lì accanto, sopra uno sgabello. E quel quadro è la nostra destinazione, o forse la fine di una traversata e l’inizio di un’altra.
Perché il quadro raffigura una stanza, questa, zeppa di mobili, oggetti e tappezzerie. Con il camino, le librerie, le tende, i damaschi, i tappeti. È questa stessa stanza, nei minimi particolari, anche gli stucchi, le frange, le ombre sull’alto soffitto da cui pende quieto un lampadario di ragnatele.
E al centro del quadro è ritratto il collezionista, questo stesso collezionista – un autoritratto, dunque -, e come lui sta osservando il quadro appena ultimato.
E nel quadro è ritratto tutto daccapo: la stanza, i mobili, gli orologi, la poltrona e l’uomo, ma stavolta è un po’ meno vecchio; e meno vecchio è l’uomo che egli contempla all’interno del quadro nel quadro, dove un altro uomo, ancora impercettibilmente più giovane, fa la stessa cosa circondato dalle stesse cose, e l’uomo del quadro successivo è più vecchio di quello seguente, e le stanze e i quadri continuano a inseguirsi gli uni dentro e dopo gli altri, in dimensioni sempre più ridotte, percorrendo a ritroso la linea del Tempo fino a indefinirsi nell’ultima immagine che i nostri occhi possono ancora cogliere e che ha le proporzioni di una miniatura.
Oltre, è questione forse solo di lenti sempre più forti e di fantasia sempre più audace, per raggiungere quel fanciullo seduto su una poltrona troppo alta per le sue gambette, ma anche lui in contemplazione di un quadro, il quadro appena ultimato di un infinito precedente, il punto più vicino al primo Big Bang.