Una storia triste

Creato il 29 novembre 2011 da Unarosaverde

Primo Levi, in “Se questo è un uomo”, racconta di come, dopo pochi giorni di Lager, avesse già perso l’istinto della pulizia. Scrive che un amico lo riprende severamente spiegandogli come la cura di sé, seppur minima, è fondamentale per dignità e proprietà, per non ridursi a bestie. E’ una cosa che anche mio nonno, tornato a piedi dalla campagna del Don, mi ripeteva: sbarbarsi, ogni volta che era possibile, o lavarsi le mani e il viso con la neve erano gesti che aiutavano a restare vivi, per non cominciare a morire.

L’azienda per cui lavoro si avvale della collaborazione, tra gli altri terzisti, anche di una piccola Onlus, che si occupa di persone con  disturbi mentali. Due o più volte al giorno il loro furgone arriva in magazzino, per consegnare e caricare. Spesso l’autista è un uomo, di mezza età, alta statura, ben piazzato. Radi bisunti capelli gli scendono fino alle spalle, indossa sempre gli stessi vestiti scuri, informi, luridi. E’ molto educato: saluta, si esprime in italiano corretto, non si spazientisce nemmeno quando i tempi di attesa si fanno lunghi. Non si lava. Mai. Due volte l’anno in cooperativa lo costringono a fare una doccia, non so con quali mezzi di convinzione. Il giorno dopo sembra un’altra persona, come si suol dire. In tre settimane riscivola nel solito sé. E’ impossibile stargli accanto: da lui emana un odore insopportabile, di putrescenza. Una volta – ero nuova del posto – è entrato nel piccolo ufficio in cui ci si occupa dei documenti di trasporto: io ero lì ma sono scappata subito via, soffocando i conati. Ho minacciato ritorsioni, con tutto il potere gerarchico che possiedo, cosa che non sono solita fare: non devono lasciarlo passare se io sono nei paraggi. Il cartello, appeso da anni solo per lui, “vietato l’accesso ai non autorizzati”, deve essere rispettato. Hanno riso e se vogliono che io risolva per loro una cosa con urgenza ribaltano la prospettiva: “guarda che sta arrivando: gli apro la porta”.

Mi hanno raccontato qualcosa della sua storia. Mi hanno detto che ha una laurea. Che aveva un suo studio professionale. Che ad un certo punto è successo qualcosa. Che è arrivata la depressione. Che adesso guida il furgoncino e raccoglie la spazzatura per il Comune. Che non si prende più cura di sé, da molto tempo ormai. Che non cambierà.

Lo osservo, mentre si abbassa a raccogliere una cassetta e i pantaloni sporchi della tuta gli scendono a scoprire il sedere nudo, e le persone arretrano, lo tengono a distanza, gli urlano le cose, fanno gesti con le mani per indicargli dove andare, evitando di toccarlo. Mi domando per quali vie sia arrivato ad ignorarsi così.

Lo guardo e mi chiedo quanto quest’uomo, tenuto a distanza, non ci sia in realtà, spesso, pericolosamente vicino.

“Tutti scoprono, più o meno presto nella loro vita, che la felicità perfetta non è realizzabile, ma pochi si soffermano invece sulla considerazione opposta: che tale è anche una infelicità perfetta. I momenti che si oppongono alla realizzazione di entrambi i due stati-limite sono della stessa natura: conseguono dalla nostra condizione umana, che è nemica di ogni infinito. Vi si oppone la nostra sempre insufficiente conoscenza del futuro; e questo si chiama, in un caso, speranza, e nell’altro, incertezza del domani. Vi si oppone la sicurezza della morte, che impone un limite a ogni gioia, ma anche a ogni dolore. Vi si oppongono le inevitabili cure materiali, che, come inquinano ogni felicità duratura, così distolgono assiduamente la nostra attenzione dalla sventura che ci sovrasta, e ne rendono frammentaria, e perciò sostenibile, la consapevolezza.” . Primo Levi, “Se questo è un uomo”


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