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Una tragica commedia famigliare

Da Ultimafila22

di Giacomo Pagone

Dopo tutti gli anni passati, questa è la prima volta che prendo in mano la penna per raccontare una strana vicenda, che accadde alcuni anni fa, di cui fui testimone.
Solo ora posso raccontare in piena libertà i confusi giorni di una famiglia che conobbi molto tempo fa, quando ancora il mio viso era solcato da un’incosciente barba e i miei capelli non avevano ancora perso il loro colore naturale, sfumando dapprima nel grigio, quindi in un bianco acceso che mi conferisce, ora, una finta aria di saggezza. Tuttavia, saggio, io non lo son stato mai, nemmeno in gioventù.
I fatti che andrò ora a raccontare, mi sono tornati in mente quando, pochi giorni fa, è scomparso l’ultimo protagonista di questa folle storia.

Non ricordo bene che anno fosse. Doveva essere più meno il… Beh, la data è solo una convenzione. Le storie si assomigliano tutte, è per questo che, spesso, le si colloca in una data precisa, per cercare di differenziarle le une dalle altre.
Dunque, dicevamo, i protagonisti di questa tragica commedia famigliare, furono senz’altro il Nonno Ettore e la giovane Matilde. Gli altri, sebbene abbiano, con il loro comportamento, influito nelle vicende, sono personaggi secondari, semplici comparse, motivo per cui non starò qui a far finta di ricordarne i nomi.
Nonno Ettore viveva con la moglie in casa di sua figlia. Il loro appartamento si trovava nel mio stesso palazzo, e la loro porta d’ingresso era di fronte a quella di casa mia.
Questa assurda storia, in un certo modo, mi ha visto protagonista, essendo io stato un caro amico di Nonno Ettore.
All’epoca ero uno squattrinato fotografo con tanti sogni nel cassetto e poco cibo nel frigorifero. Ero riuscito ad affittare quel monolocale solo perché il proprietario dello stabile mi aveva assunto nel suo negozio per farmi fare il lavoro sporco che lui, accuratamente, evitava: ovvero foto di matrimoni, battesimi e compleanni nei posti più sperduti e nelle ore più incredibili.
Non ci misi molto a fare la conoscenza di Nonno Ettore. Era un uomo sulla settantina, alto e magro. I folti capelli bianchi erano legati in una coda di cavallo da un elastico rosso. Lo sguardo vivace e allegro era in qualche modo offuscato dalle lenti chiare, color seppia, dei suoi occhiali da vista, da cui non si separava mai. Ben presto divenimmo amici: il mio squallido appartamento disordinato era il suo rifugio dalle critiche della moglie e dai capricci dei suoi nipoti. Passavamo interi fine settimana a bere birra e a guardare le partite.
Tra una sbronza e l’altra mi raccontò che da giovane era un tipo ribelle, non che ora lo fosse meno, uno spensierato artista di strada che si guadagnava da vivere vendendo i quadri che dipingeva. Qualcosa però era andato storto: aveva conosciuto sua moglie ad una festa e, tra una birra e un whiskey, lei era rimasta incinta. Sfortuna volle che il padre di lei fosse un ricco uomo d’affari, il quale, appresa la notizia, gli impose di tagliarsi i capelli, sposare la figlia e presentarsi negli uffici dell’impresa di famiglia il lunedì successivo.
Alla morte del suocero aveva ricominciato a far crescere i capelli, ma lo spirito, diceva, ne aveva risentito molto.
Un paio d’anni dopo essermi trasferito lì, nel palazzo venne ad abitare una giovane coppia appena sposata: lui era un medico alle prime armi, lei una scrittrice di racconti d’avventura. Io e Nonno Ettore stavamo facendo quattro chiacchiere con il portiere del palazzo quando li vedemmo arrivare. Nonno Ettore mi diede una gomitata nello stomaco per richiamare l’attenzione. In un attimo – e, giuro, dopo tanti anni, non so ancora come fece a trascinarmi!- ci ritrovammo a presentarci alla coppia appena arrivata. Se si escludeva la figlia della signora del terzo piano, quella con la casa che assomigliava più ad una serra, per intenderci, loro due erano gli unici giovani, oltre al sottoscritto, che abitavano nel palazzo. A questo proposito, ora ricordo, la figlia della Signora delle Piante era da escludere dalla lista dei giovani, in quanto aveva sì solo trent’anni, ma restava chiusa tutto il giorno in casa, usciva raramente, aveva lenti bifocali spesse come fondi di bottiglia e un paio di baffoni da far invidia a Stalin in persona!
I mesi successivi furono davvero divertenti. Matilde, questo era il nome della sposina, restava spesso sola a casa, a lavorare ai suoi racconti. Quando era a corto di ispirazione saliva nel mio appartamento, dove mi trovava intento a perdere qualche partita di scacchi con Nonno Ettore: in quel periodo c’era poco lavoro, la crisi economica dell’epoca aveva tagliato i matrimoni, ed io non potevo far altro che ringraziare la nefasta situazione economica nazionale che mi aveva concesso un bel periodo di vacanza.
Insieme, tutti e tre, vedevamo vecchi film in tv, oppure uscivamo a fare delle lunghe passeggiate nel centro barocco della città, o, ancora, leggevamo in silenzio ognuno un libro diverso, per poi raccontarlo agli altri, una volta terminato.
Matilde era una ragazza straordinaria, bella, alta, con i capelli castani ondulati e grandi occhi verdi. Ovviamente era dotata di una inarrestabile fantasia e di un sarcasmo davvero tagliente.
Fu in uno di quelle mattinate, qualche decina di minuti prima che Matilde suonasse al mio campanello, che Nonno Ettore si confessò.
“Sono innamorato di Matilde” mi disse.
Io lo guardai incredulo, con un sorriso compassionevole dipinto in volto. Evidentemente la giovane, libera e bella scrittrice aveva risvegliato l’istinto di ribellione del mio anziano amico.
“Penso che lei ricambi i miei sentimenti” aggiunse poi.
“Ettore…ecco, vedi, io credo che lei stia bene con te, così come io sto bene con voi due” improvvisai, a disagio, non volendo distruggere i sogni d’amore del mio amico.
“Io la amo!”
“Ettore…”
“No! Io amo lei e lei ama me!” disse seccamente.
“Come puoi dire una cosa del genere?” ero infastidito dalla sua infantile testardaggine.
“Beh, vedi, me l’ha detto lei!”
“Cosa? E quando, di grazia?”
“Ieri pomeriggio”
“Ieri pomeriggio” ripetei scettico.
“A casa sua. Nel suo letto. Dopo aver fatto l’amore”
Non sapevo se attribuire quest’ultima frase ad una birra di troppo o alla demenza senile. Nonno Ettore mi raccontò che da qualche settimana consumavano quell’assurda relazione clandestina a casa di lei, mentre il marito era fuori per delle visite. Sarà stata l’ebbrezza della situazione, il piacere dell’uomo “maturo”, o chissà diavolo cosa, ma fatto sta che i due avevano finito per innamorarsi.
“C’è di più” disse, “aspettiamo un bambino”
Pensai di essere impazzito e cercai a tentoni una sveglia che non c’era, per convincermi che era tutto un sogno. Nonno Ettore, settantenne rampante e Matilde una spumeggiante scrittrice trent’enne, avevano concepito un figlio. Insieme!
Cercai di fare ordine nei miei pensieri. Gli dissi di pensare alla sua famiglia. A sua moglie, sua figlia, a quelle pesti dei suoi nipoti, ma non ci fu verso.
“Matilde vuole lasciare suo marito” disse con un sorriso divertito e lo sguardo commosso.
“Ettore tu sei sposato, lei anche. Non potete…” ma non mi lasciò finire la frase.
“Parli come mio suocero” mi disse, rabbuiandosi, quindi uscì di casa.
Quella sera, per capire la situazione, ebbi bisogno del mio amico Jack. Jack Daniel’s, per la precisione. Tuttavia la mattina seguente avevo chiaro in mente quello che dovevo fare. La moglie di Nonno Ettore era, effettivamente, una strega ed in più io detestavo quell’orribile chihuahua che portava sempre a spasso. Lei lo definiva un “dobermann nano” quando la incrociavo nell’ascensore. Il nome scientifico, però, aveva poca importanza: quel cane, comunque, assomigliava più ad un topo che a qualunque altro canide in circolazione!
Chiamai Nonno Ettore e gli diedi tutto il mio appoggio. Lui me ne fu grato e il pomeriggio si presentò con Matilde, una bottiglia di champagne ed una torta al cioccolato per festeggiare il loro fidanzamento ufficiale.
Rompere con il marito non fu difficile per Matilde. Lui la considerava troppo ribelle e disordinata. Io supponevo la considerasse troppo femminile per i suoi gusti. La conferma di ciò la ebbi quando sentì dire in giro che era andato a vivere a casa di un istruttore di ginnastica tre anni più giovane di lui!
Alla fine delle udienze per il divorzio, Martina sfoggiava una florida pancia che non poteva più essere coperta dalle magliette larghe.
Il problema fu quando Nonno Ettore annunciò di voler divorziare dalla moglie per sposare la scrittrice quaranta anni più giovane di lui. Vennero chiamati psicologi, psichiatri, luminari di scienza e sacerdoti con tanto di schiera di chierichetti al seguito, per studiare l’improvvisa follia di Nonno Ettore. E lui? Beh, lui era innamorato, e a nulla servirono i pianti della figlia e le scenate isteriche della moglie.
“Non faresti tanto il galletto, se ci fosse qui mio padre” tentava di umiliarlo la moglie.
“L’ultima volta che l’ho visto era in una cassa di legno, tre metri sotto terra” rispondeva beffardo lui.
Il fato, però, disgraziato!, tirò un brutto scherzo al mio povero amico. In quei giorni di ardenti litigi, infatti, morì un cognato di Nonno Ettore. Sfortuna volle che fosse proprio il cognato che aveva ereditato, dal padre, l’impresa in cui aveva lavorato lo stesso Nonno Ettore.
All’apertura del testamento, il defunto, sprovvisto di eredi, aveva lasciato tutti i suoi beni alla figlia di Nonno Ettore. Questa, con un’abile mossa, riuscì a bloccare tutti i guadagni del padre derivanti dai profitti dell’azienda di famiglia, minacciandolo di lasciarlo sul lastrico se non si fosse ravveduto.
Nonno Ettore mi raccontò questa storia in lacrime. Non pensava a se stesso, diceva, ma al figlio che sarebbe nato di lì a qualche mese e alla sua povera Matilde. Come avrebbero fatto senza soldi?
Fu allora che, con un sorriso perfido, versai un bicchiere di whiskey al mio amico e mi preparai ad illustrargli il piano. Lui avrebbe dovuto tornare nei ranghi, mentre io avrei finto di sposare Matilde. Avremmo cambiato casa, per dimostrare la fine di quella vicenda. Nel frattempo lui avrebbe dovuto continuare a vivere con la sua vecchia famiglia, con la consapevolezza che, ogni volta che fosse riuscito a liberarsi della stretta vigilanza della moglie, sarebbe corso ad incontrare la sua amata, nella nuova casa.
La bimba nacque forte e sana. I genitori decisero di chiamarla Libertà, auspicando di poter presto raggiungere la libertà di vivere insieme. La vecchia famiglia di Nonno Ettore non sapeva nulla della gravidanza, né tantomeno della nascita della piccola. Fu questo, probabilmente, il motivo per cui la recita messa in atto dal mio amico ebbe un tale successo. Alcuni mesi dopo la nascita di Libertà, Nonno Ettore radunò la famiglia e chiese loro scusa, adducendo come scusa della sua momentanea follia, il fatto che da tempo stava senza far nulla. Dopo vari tentativi riuscì a convincere sua figlia a concedergli un incarico importante all’interno dell’azienda. La figlia, tuttavia, amministrava la metà dei compensi di Nonno Ettore, come forma di tutela da possibili nuovi colpi di testa del padre. L’altra metà, fortunatamente, oculatamente divisa in azioni di borsa, acquisto di immobili e quote societarie, riuscì, in un anno, a fruttare un bel malloppo a Nonno Ettore.
Una volta certo della propria sicurezza economica, Nonno Ettore andò nell’ufficio della figlia e presentò le proprie dimissioni. Dopodiché ci raggiunse all’aeroporto, dove, tutti e quattro insieme, prendemmo il primo volo per Londra. Lì, Nonno Ettore acquistò un piccolo palazzo a tre piani: al piano terra ci avrebbe vissuto con la sua nuova famiglia, al primo piano avrei abitato io, mentre l’ultimo piano sarebbe stato affittato per guadagnare qualcosa.

Questa strana storia ebbe, dunque, un lieto fine. La sorte sorrise a Nonno Ettore, il quale riuscì a vedere la figlia tagliare la torta di nozze. Poi, un bel giorno d’estate, alla veneranda età di centouno anni, chiuse per sempre gli occhi sorridendo, seduto alla poltrona del salotto del suo appartamento londinese, subito dopo che Matilde, una volta chiuso il telefono, l’aveva informato della nascita del nipotino. Sia Libertà, la mamma, sia Ettore, il piccolino, cui era stato dato il nome del nonno, godevano di ottima salute.
Il funerale fu allegro e colorato, proprio come aveva voluto Nonno Ettore. Io intrattenni gli ospiti raccontando la folle storia di quella famiglia, proprio come il mio vecchio amico mi aveva chiesto di fare.
Qualche giorno fa Matilde ha raggiunto il suo amato. Resto io, dunque, l’unico testimone vivente di quella folle storia d’amore, e prima che anche il mio tempo giungesse a termine, ho sentito il bisogno di scrivere questa storia.
Ho continuato a vivere nel mio appartamento al primo piano della casa acquistata da Nonno Ettore. Adesso l’appartamento al piano terra è abitato da Libertà e da suo marito. L’ultimo piano, invece, non è più in affitto: lo scorso mese si sono trasferiti lì il giovane Ettore con la moglie e l’ultima nata in famiglia, la piccola Matilde.
Per ciò che mi riguarda, io non mi sono sposato e non ho avuto figli. Sono il membro più anziano di questa strana famiglia. Sono stato lo zio di Libertà, il nonno del piccolo Ettore e ora sarò il bisnonno della piccola Matilde.
Non potevo chiedere di meglio dalla vita.

Allungo la mano, spengo la luce dell’abat-jour, raccolgo i miei fogli ed esco di casa. In un elegante palazzo del centro di Londra mi aspetta ora il mio editore. Il mio libro uscirà a giorni, tutto è già programmato.
Il titolo? Semplice: “Una tragica commedia famigliare”.


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