Magazine Cultura

Una vita come la tua

Da Viadellebelledonne

Illustrazione di Anna Bernasconi

una vita come la tua

Leggo su D, l’inserto del sabato del quotidiano La repubblica, il titolo: “Vorresti davvero che tua figlia facesse una vita come la tua?”. Sotto ci sono due foto: una rappresenta una giovane donna bionda in abiti pratici. È Gaby Insliff, ex editorialista dell’Observer e attualmente mamma, stando alla didascalia. A fianco alla foto di Gaby c’è quella del figlio, un bambino di neanche due anni. Potrei limitarmi alla lettura del titolo e alle foto corredate da didascalia, per avere un’idea abbastanza precisa del contenuto ma anche del taglio con cui la giornalista italiana, prende a scusa la vicenda della collega inglese, per dire la sua. Potrei fermarmi qui, ai volti di questi due, madre e figlio, e capire tutto, senza comporre a mia volta la versione della madre che spaccia la scelta di scrivere per alternativa e più indipendente, rispetto a quella delle madri che scelgono volontariamente, ammesso che ancora ce ne siano, la casalinghitudine, come abbracciando la croce. Ma l’argomento mi preme troppo perciò comincio la lettura. In realtà apprendo dalla giornalista italiana più i fatti suoi che quelli di Gaby. Fatti tutti relativi alla cinica dell’essere madre in questi tempi spietati. Ma durante la lettura mi sorge un dubbio: possibile che ancora esista la tipica donna? Tipo la tipica donna emancipata. Quella che più che con i figli, combatte con i sensi di colpa relativi al non starci. Quella tipica donna a cui la giornalista sembra rivolgersi  solleticando l’ignara lettrice a porsi la stessa domanda e rispondersi negli stessi termini che suggerisce l’articolo. Una domanda  a cui, a voler proprio rispondere, ci vorrebbe una risposta per quante sono le femmine di ogni latitudine ma che leggendo quanto riporta l’articolo, riduce ogni possibile risposta a un assoluto: quelle che assolutamente sì e quelle che assolutamente no. Che sì, assolutamente vorrebbero, la loro figlia come loro,  perché la loro vita è perennemente allietata dall’istinto materno che le guida all’orizzonte come la stella cometa alla volta della mangiatoia. E quella che “assolutamente no …Cosa???”  perché in quanto madri in carriera così sature dell’amarezza di stare non più di 45 minuti al giorno con la prole, vorrebbero che le loro figlie diventassero proprio quella casalinga, nel ruolo che per loro stesse, hanno visto come il fumo negli occhi, tanto da costringersi per anni ai lavori forzati. Ma no, non esistono queste due donne, la giornalista che ha scritto l’articolo è solo una simpatica provocatrice. Spero. Non può dire sul serio anche quando riporta la domanda che per prima, niente di meno India Knigth si è posta sulle pagine del Time:  “Vorresti davvero che tua figlia facesse una vita come la tua?”. Io a questa domanda non so rispondere. Non la colgo, soprattutto perché a pormela è la stessa giornalista che si convince, e mi vuole convincere, che la figlia la preferisca “in giro”  (testualmente) piuttosto che assorbita a tempo pieno, nell’attività più democratica che ha visto madri di tutti i ceti unirsi nei secoli in unico partito: quello della recriminazione riguardo le loro rinunce di donna. Quindi più che pensare a una risposta, mi viene pensato che il narcisismo che ispira la domanda, è talmente incistato nelle dinamiche dell’opinione “generale”, che non si avverte. Perché  l’opinione “generale”, e se sta scritto sul Time deve essere così, pare conforti molto di più quelle che si credono generose nel porsi la fatidica domanda, piuttosto che il gruppo sparuto di quelle, casalinghe, giornaliste o bidella, che credono la figlia, persona che le prescinda a prescindere; e che in quanto persona altra, implicitamente salva dall’essere clone della madre. Quelle che credono la figlia, un’altra femmina con cui condividere tutt’al più il sollievo dato dal fatto che sono finiti tempi in cui aspirare a essere tipicamente qualcosa, figurarsi la propria madre, cui i rotocalchi sembrano indicare più che come donna, come  prodotto tipico. E che sollevarsi dal fardello dell’essere una femmina DOC va soprattutto a vantaggio della creatività, virtù, che è provato, serve di più dell’istinto materno e della rivendicazione al diritto a non averlo. Chiudo il giornale. L’articolo potevo fare a meno di leggerlo. Ma in fondo la signora che l’ha scritto non ha fatto che trasporre in chiave furbetta un mix di cartoni animati che da anni rompono l’anima alle ragazzine su ciò che devono essere. Da simpatica orchessa post moderna insomma, la giornalista ha voluto consigliare Cenerentola di non farsi troppo mettere i piedi in testa; e poi, per salvare la faccia, come quasi tutte le orchesse fanno, si è armata di altrettanta virtù da desiderare e ottenere anche per sé la prole, a patto che siano gli altri a guardargliela e lei a rimpiangerla.


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