Vedete, ci sono due aspetti che accomunano me e il regista in questione; il primo è l’età, il secondo è la passione per la settima arte, tuttavia è qui che si sostanzia un netto distacco tra noi due poiché io di cinema ne parlo, o almeno ci provo, mentre lui il cinema lo fa, e credo ci sia una bella differenza.
Attenendomi soltanto al lavoro precedente, l’unica altra opera da me vista di Simone la quale si dichiarava fin da subito un omaggio ad autori italiani come Bava e Massaccesi, la considerazione che in primis mi viene da fare è di quanto il regista sia cresciuto.
Affrontare il tema della religione in un piccolo paese del sud, della fede che porta speranza, ma anche della disperazione di un tumore al seno e del dolore fisico che questo comporta, dà un chiaro segnale di impegno ben aldilà di una semplice fiaba horror che strizza l’occhio al cinema di genere, cinema del quale è utile essere a conoscenza, ma dal quale, oggi, nel 2010, è necessario emanciparsi.
Va da sé che maneggiando questioni più “alte” aumenta automaticamente la difficoltà di inscenarle, di renderle credibili perché un conto è illustrare una storia legata al fantastico con spruzzate di gore, e un altro è riprendere in maniera convincente i tormenti di un’anziana coppia che si trova nel bel mezzo di uno scontro titanico: il tumore di Antonietta (il male) in antitesi alle apparizioni mistiche di Angelo (il bene… ?), in un quadro generale dove si inseriscono prepotentemente riverberi soprannaturali di misteriosa origine.
Il compito è dunque arduo e probabilmente anche oltre le possibilità di un regista così giovane che con un budget esiguo non poteva fare dei miracoli, giusto per rimanere in tema. Ma a me piace chi sa osare, chi non ha paura di mettersi in gioco, e Simone lo fa, costruendo un’opera che dà il meglio di sé durante i momenti di silenzio, soprattutto nell’appartamento casalingo dalle opprimenti tappezzerie, adornato in ogniddove da icone religiose riprese in dettaglio dall’autore – il suo punto di riferimento, come ha ammesso egli stesso, è Friedkin ed esteticamente qualcosina de L’esorcista (1973) ci potrebbe essere – che danno una sensazione straniante, di sottile inquietudine. Dal punto di vista dialogico si zoppica parecchio, ma non va additata troppo la sceneggiatura di Emanuele Mattana, piuttosto l’interpretazione che viene data di essa da un gruppo di attori che attori non sono, e dove si coglie una tale ruggine fra i due vecchietti protagonisti nel loro relazionarsi che quasi intenerisce.
Fortunatamente il pericoloso inciampo sullo spiegone finale viene dribblato con abilità lasciando domande aperte, apertissime (chi è il barbone? E quel frate incappucciato?), poiché forse certe cose non si possono spiegare razionalmente.
La mia scarsa credenza religiosa mi porta però lontano da una possibile ragione… divina dietro tutto questo (pare che sia una storia vera), l’Angelo del film dalla mistica profanità (ma versò il vino e spezzò il pane), invece, cosiccome anche le persone che ruotano intorno a lui, sembra accettare la possibilità di un intervento ultraterreno nell’aldiquà sottoforma di segnali che non esiterei a bollare come sovrainterpretati. Simone fotografa tale spaccato di vita adeguandosi all’ideologia del suo protagonista (quella del bene, dunque), senza dimenticarsi comunque di bilanciare tale bontà con il suo rovescio (la morte della moglie, e quindi una reale presenza del male).
La strada è ancora lunga e costellata di ostacoli – Bondi sta a un giovane regista come il DDT sta ai poveri insetti –, ma per il sottoscritto è quella giusta.