Ieri ero collegato online con alcuni amici e a un certo punto è scattata l’idea di accendere la TV e guardare Masterpiece.
Ovvero, il talent show sulla scrittura, sul nuovo scrittore da centomila copie assicurate. Stampate, per lo meno in teoria, se la trasmissione avrà un futuro.
Che siano anche copie vendute, be’, se ne può discutere…
E ora, mettiamo sul tavolo un po’ di verità:
se non m’avessero ricordato che ieri iniziava quel programma, io Masterpiece non l’avrei guardato, dedicandomi a un paio di film di Jon Woo durante la sua fase hollywoodiana: Broken Arrow e Face-Off. Sì, ieri sera avevo voglia di cinema impegnato.
Non guardo la TV, men che mai raitre, il “canale intellettuale”. Perché nella mia vita sono sempre stato alla larga da chi ha bisogno di darsi una definizione o un manifesto. Se si è intellettuali, lo si è nei fatti, non c’è bisogno di far marciare gli sbandieratori.
Ma… era nelle mie intenzioni di guardare comunque, se non ieri un altro giorno, almeno una puntata di Masterpiece. Perché… noverim me, noverim te. Oppure conosci il tuo nemico e almeno un centinaio di altri motti della saggezza popolare e non. Perché di solito mi piace approfondire una cosa, farmi una mia idea e non seguire il sentito dire.
L’ho guardato, l’ho trovato ridicolo sotto ogni aspetto e ho spento la tv, consapevole che passeranno mesi, prima di riaccenderla. Ho fatto l’esperienza, diciamo.
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Poi però ho fatto un errore. Siccome sono in procinto di pubblicare un ebook a cui ho lavorato per mesi, non ho resistito a trasferire il file definitivo sull’ereader e a dare, maledetto me, l’ultima lettura, prima di darlo in pasto al pubblico.
Ebbene, strana cosa è la scrittura.
Se ne sta lì, su pagine elettriche, a dormire, fingendosi di bell’aspetto, trasmettendo emozioni diverse ogni volta, pur restando le parole identiche, sottacendo lo schifo in essa celato: i sassi nello stagno. Gli orrori del periodo, le similitudini facili facili: “attaccarsi al braccio come fosse zavorra”. Questa merda, sono stato capace di scrivere.
E il bello è che me ne sono accorto da solo, dopo mesi.
Capita sempre così. Per fortuna.
E così, sapendo di essere in grado di scrivere molto meglio di così, stamattina mi sono seduto alla scrivania, non mi sono nemmeno lavato la faccia, e ho riletto tutto, pescando la merda dalle pagine, col retino.
La pesca è stata abbondante. E terrificante.
Perché grande è il terrore che ti prende quando, convinto di aver scritto bene, guardi il testo, quel testo che conosci a memoria, ed è come se l’avesse scritto un altro te, un te rincoglionito e assonnato. E a nulla vale la scusa che, quando l’hai scritto, non ci stavi tanto, con la testa, complice il periodo incasinato.
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La scrittura è una roba dannatamente seria. Non ti puoi sedere al tavolo con essa, e trattarla come una cara amica. Con lei ci devi fare a botte. Solo così ti restituirà rispetto.
E ho pensato, invece, a quanto, ieri sera, per quel paio d’ore di trasmissione, sia stata presa in giro, la scrittura, vistasi incarnata nel “personaggio scrittore” come a certi sinistri figuri piace immaginarlo: il tipo strano, che si porta dietro un baule di traumi pregressi o ancora in corso, che sfoga, scrivendo, i demoni interiori del salcazzo.
E che, per mostrare di saper scrivere, è costretto a vergare il temino sulle emozioni, su “cosa ha provato” di ritorno dalla gitarella con la classe a vedere i campi profughi. Oppure sparare cazzate in ascensore, per un intero minuto in apnea, a una che avrebbe preferito stare altrove, magari bersi un drink con l’oliva verde e rileggersi un libriccino di Kafka, che lui sì era figo.
E ho guardato alla mia fottuta vita normale: che poi è colpa sua, della mia vita, se non vengo mai preso sul serio. A quanto pare.
Sono alto 182 cm. Sono robusto e ora anche in piena forma. Sono pieno di muscoli. Non direste mai, guardandomi, che sono uno col tormento interiore, emotivo, che si appiattisce il culo alla tastiera, componendo una frase dopo l’altra per narrare storie.
Ho piuttosto l’aria dello spaccaculi. E anche un po’ l’indole, lo ammetto. Perchè la vita non mi piega, sono io che piego lei, almeno finché ho la forza e riesco a ribattere colpo su colpo alle mazzate che mi tira.
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Non ho mai avuto traumi. O, se ne ho avuti, li ho superati e ne sono uscito vincitore.
Ho quasi 37 anni e tutti i capelli in testa. Ho persino una vita sessuale che esula dal solitario cinque contro uno, pur non troppo intensa.
Ho un appetito enorme. L’ho sempre avuto.
Ho fede.
Ho letto tantissimo, e non perché volessi riscatto dalla mia infima condizione di uomo comune, ma perché mi piaceva farlo. Mi piace ancora. COme ho detto sempre, nessuno scrittore si porta dietro motivazioni superiori, o la sacra missione di educare il mondo. Quelle sono tutte stronzate.
Mi guardo e vedo un uomo normale che, in quanto tale, da certa gente è visto come assolutamente incapace di scrivere roba neanche lontanamente interessante.
La mia colpa? Quella di essere tale. Normale.
E dico colpa con ironia. Ché non me ne frega un cazzo di essere speciale per gente così.
Il talento, la scrittura, se ciò che si è prodotto sia valido o no, niente sembra importare per certa gente. Conta solo essere un fenomeno.
Da baraccone.
E in quanto tale vendibile. In centomila copie. Anche di più.
Immagine, quella del fenomeno da baraccone, che però stride con l’immagine di loro stessi, che paiono normali. Esattamente come me.
È l’antica logica del freak show. Quando l’uomo aragosta e la donna barbuta mettevano in mostra le loro stranezze e ne ricevano in cambio sguardi meravigliati e disgustati e quel poco di soldi racimolati dai biglietti, per consentire loro di mettere insieme il pranzo con la cena. Perché, cazzo, dovevano campare.
C’è però una differenza. Oggi non lo si fa nemmeno più per soldi. Ma per la gloria. O tempora o mores.
Sipario.