Se, durante tutto l’anno c’è un momento in cui è facilissimo imbattersi, dalle grandi città d’Italia a quasi ogni paesino della provincia, in un concerto o spettacolo di musica classica, in oratorî, esecuzioni cameristiche, riflessioni letterarie accompagnate da commenti musicali, esso non può che coincidere con le feste natalizie.
In questo periodo, è come se in ognuno si manifestasse la chiara intenzione di evitare i soliti discorsi quotidiani, su ciò che non funziona, su quanto non va o va cambiato nel paese, e si evitano considerazioni che ritorneranno immediatamente dopo e, mai, meno amare: traiamo da ciò spunto per parlare non dei pur interessanti eventi musicali delle ultime settimane (addio di Daniel Barenboim alla Scala, Anna Netrebko all’Accademia di Santa Cecilia in Roma, Maurizio Pollini e l’intero ciclo delle sonate di Beethoven da lui suonato edito dalla casa Deutsche Grammophon, solo per citare i più prestigiosi), ma per riflettere su come, forse, in questo mare di conformismo e sciatteria, di decadenza culturale e mancanza di ogni prospettiva progettuale in campo artistico e musicale, qualcosa può ancora far sperare. Parliamo oggi, infatti, con Matteo Leone, giovane musicista ventiduenne, che in giovane età è entrato a far parte di una delle istituzioni musicali più importanti d’Italia e, per quanto la sua carriera sia soltanto all’inizio, può testimoniare come, con tanta fatica e strenua dedizione allo studio di uno strumento, di un’arte in senso lato, la tanto avara Italia riesce qualche volta a non scacciare i meritevoli e ad accoglierli nel meglio che ha in sé.
Matteo, tu hai fatto del corno la tua passione, forse lo strumento del tuo successo. Perché proprio il corno, così insolito per un bambino che si avvia agli studî musicali?
I casi, nella vita, esistono fino ad un certo punto: può anche darsi che, passando davanti la vetrina di un negozio di musica, io potessi esser colpito dalla forma così insolita del corno, ma forse, dopo un primo stupore, l’avrei presto dimenticato. No, se ho scelto il corno, è perché ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che conosceva, già da tempo, la splendida realtà delle bande, e ne faceva parte attivamente. Si considera troppo poco spesso il valore che la bande musicali rappresentano nella formazione musicale, artistica, culturale in senso lato, in ogni angolo della nostra Italia: al Nord come nel Mezzogiorno, pur con diverse storie e tradizioni, la banda è la prima scuola musicale alla quale un bambino può accostarsi e, in essa, scoprire la bellezza della musica direttamente applicata ad uno strumento e, quel che veramente conta, dall’interno di una vera e propria compagine orchestrale. È la banda e la vicinanza che la mia famiglia ha da sempre con essa avuta, che mi ha permesso di vedere, toccare e confrontare strumenti che altrimenti io e tanti altri ragazzi non avremmo mai visto, se non in televisione, ed è per questo che, tra tutti, sul corno da subito non ho avuto alcun dubbio. Quando poi ho cominciato lo studio professionale dello strumento, non ho mai dimenticato quanto la banda musicale ha significato per me, e infatti mai ho smesso di farvi parte né, ad oggi, mi sentirei di abbandonarla.
Con gli studî al Conservatorio Arcangelo Corelli di Messina, hai posto le basi per tutti i successivi perfezionamenti, che hai fatto e che farai. Ma quale esperienza può essere considerata il discrimine tra lo studio di uno strumento musicale comune a molti e la dimensione che il tuo ha acquisito, nella tua vita e nella tua prima carriera?
Senza dubbio è stata la formazione che, tra i primi beneficiarî del conservatorio messinese, ho fatto nella città austriaca di Eisenstadt. È questa la città in cui Haydn fu maestro di cappella, ma di là dall’altisonante nome del grande compositore, basterebbe dire che è Eisenstadt una città austriaca. È una città in cui alla domanda:« Cosa fai nella vita?», puoi tranquillamente rispondere: «Il musicista», senza doverti attendere una seconda domanda di precisazione:« No, come lavoro intendo!». È l’Austria, è il mondo germanico, dove la musica non è mero diletto o un intrattenimento nei giorni di vacanza, come qui, ma è vita, è formazione sociale, è educazione, è parte dell’orizzonte quotidiano di ognuno. Un musicista lì non è un alieno, né chissà quale prodigioso essere che attinge direttamente dalle vette dell’Olimpo la musica che suona: è un professionista come tanti, al quale si guarda senza stranezza, con gran naturalezza. È lì che ho vissuto, a pelle, un nuovo modo, completamente diverso e per me rivoluzionario di fare e studiare musica, e con le difficoltà della lingua, del paese straniero, del freddo (che per un siciliano non è un dato del tutto irrilevante), mi sono trovato quasi da solo con il mio corno, e ho ancora più compreso quanta fatica, ma anche quanto grande bellezza comporti lo studio di uno strumento del genere.
Bene, fin qui la tua formazione è però simile a quella della stragrande maggioranza dei giovani musicisti italiani, che dopo una prima, spesso anche valida formazione in Italia, vanno via e continuano e stabilizzano il proprio percorso all’estero. Ma il motivo per cui stiamo discutendo è che, diversamente da molti, tu hai avuto la possibilità, diciamo pure la fortuna, di tornare in una accademia italiana e addirittura di tornare in una delle più prestigiose. Come è potuto accadere?
Il discorso fatto per la riconoscenza alla banda musicale per la mia primissima formazione, non solamente professionale ma sopra tutto vitale e umana, vale anche per tutto il resto: ci vuole, sempre e comunque, la grande umiltà di riconoscere sé stessi come sempre imperfetti esecutori, studenti a vita, persone che hanno l’obbligo umano di migliorarsi, sempre e in qualunque momento, ma questo direi quasi che sia scontato; l’umiltà io credo risieda ancor più nel dare il giusto merito, l’equo tributo, alla terra che ti ha visto crescere, che ti ha formato e che ti ha dato quelle relazioni umane delle quali non potresti fare a meno. Io ero in Austria, nel mondo della musica, e potevo benissimo pensare che solo lì o all’estero avrei potuto trovare la mia strada, e magari la mia fortuna, in ciò magari sostenuto dai soliti disfattisti per cui ormai qui in Italia, davvero, tutto sia perduto, nulla ci sia più. Eppure, così non è stato. Ho fatto tre audizioni differenti, due in Austria, una, del tutto casuale e di vera prova, qui in Italia. Dovevo rientrare ad Eisenstadt, e invece di salire come tutte le altre volte in treno, presi un aereo per Milano, scesi, feci l’audizione per l’Accademia del teatro alla Scala, e ripartii per l’Austria. Era la mia prima audizione in Italia, e l’ho fatta solo come una prova qualunque. Eppure, tra tutti i ragazzi che hanno concorso, io sono stato scelto. Per cui, finita la splendida esperienza austriaca, ho potuto cominciare quella, in casa, a Milano.
Siamo al cuore del discorso. In cosa consiste il tuo impegno e il tuo studio in Accademia, a Milano?
Una volta scelti all’audizione, il docente di esercitazione orchestrale, il maestro Pietro Mianiti, ha visto fino a che punto, nel lungo tempo delle prove e, soprattutto, nell’insieme, ogni elemento valesse. Così, i primi tempi le prove si svolgevano generalmente in sezioni, ed io facevo naturalmente parte di quella dei fiati. Ricordo un episodio bellissimo: ad una delle prime prove, questa volta di insieme, studiavamo la Quarta sinfonia di Tchaikovsky, in cui, già nelle primissime battute del primo movimento, i corni hanno il dominio assoluto; il maestro ci ha fatto eseguire per una ventina di volte di seguito le prime battute, e ciò evidentemente significa sottoporre l’esecutore ad una tensione fisica, tecnica, non indifferente; bene, dopo circa la ventesima il maestro afferma: «Perfetto, possiamo andare avanti con la sinfonia, i corni che servono ci sono!». Così, ad ogni prova, il confronto con il maestro e, ancor più, con gli altri orchestrali, alcuni dei quali con una esperienza alle spalle ben più blasonata e datata della mia, si trasformavano in una palestra fondamentale, e i loro consigli, il loro comportamento, ogni loro gesto era per me fonte inesauribile di insegnamento.
Quanti ragazzi annovera l’Accademia, e quanti stranieri vi sono?
L’Accademia conta circa un centinaio di orchestrali, molti dei quali stranieri. Vi è un folto gruppo di spagnoli, ma in generale quasi ogni paese europeo conta qualche elemento, ed alcuni musicisti vengono anche da più lontano. È naturale come in una congerie così mista e vasta di intelligenze, solo sentendosi parte di un gruppo unitario, e di un progetto così importante, quale è la programmazione dell’Accademia del teatro, si può riuscire davvero. E noto come troppo spesso qui in Italia si disprezzi facilmente ciò che abbiamo, senza invece considerare come grandi e di valore appaiano, agli occhi di altri, istituzioni quali il teatro alla Scala e la sua Accademia: è forte, in questo senso, la responsabilità che ricade sulle nostre spalle, e questa responsabilità la si assume sempre con serietà e attenzione, pur con quella umiltà e leggerezza umana che contraddistinguono le nostre prove e le nostre relazioni, fuori dalla sala concerto: anche una cena tutti insieme dopo le prove si trasforma in occasione di confronto, di scambio, di crescita. Così, non sembra forse che anche qui da noi il musicista possa essere una professione come altre, normale come altre, solo diversa perché, costantemente, si vive nella bellezza e per l’arte?
Adesso, in concreto, parliamo dei concerti eseguiti in questo periodo con l’Accademia.
Creata quell’armonia necessaria a che ogni gruppo, ancor di più un’orchestra, possa con-fondersi e fondersi in una, la programmazione è stata molto impegnativa e stimolante: un primo concerto istituzionale con i cantanti dell’Accademia, nel quale, quale pagina orchestrale, abbiamo eseguito i ballabili dell’Otello di Verdi, è stato seguito da uno, a luglio, in cui con la sola sezione dei fiati abbiamo interpretato la Serenata per dieci strumenti a fiato, violoncello e contrabbasso in re minore, op. 44, di Dvoràk e la Musica per i reali fuochi d’artificio HWV 351 di Händel. Ma è dopo la pausa estiva che, forti di un gruppo già abbastanza temprato, l’orchestra si è impegnata in un programma ancora più ambizioso. Con il maestro Fabio Luisi, innanzitutto, per l’importante concerto per la Società del quartetto: in esso, la sezione degli archi ha eseguito la Verklärte Nacht, uno tra i capolavori giovanili di Arnold Schönberg, e tutta l’orchestra ha poi suonato la Quarta sinfonia di Mahler, in cui è chiaro che i corni hanno un protagonismo indiscusso. E, contemporaneamente a questo, composizioni di Sibelius e Cenerentola, lo splendido capolavoro buffo di Gioacchino Rossini, quest’ultimo inserito nel cartellone ufficiale del Teatro alla Scala. Su questo impegno mi piace più soffermarmi: l’iniziativa prende il nome di Cenerentola per bambini, uno spettacolo che, condensando la partitura rossiniana in alcune scene, riducendo l’orchestra e proponendo una versione dell’opera più concentrata, la propone ad un pubblico di soli bambini e ragazzi. Tutto ciò cosa comporta? Innanzitutto un lavoro maggiore per tutti, poiché né i cantanti, né il coro, né l’orchestra, possono giovarsi di quelle pause che l’ampia partitura rossiniana e, in generale, la forma in sé dell’opera lirica italiana, riserva in modo alternato a tutti: tutti instancabilmente dobbiamo mantenere un ritmo serrato, molto più concentrazione e una fatica fisica non indifferente. In più, l’ouverture dell’opera presenta come primi strumenti ad intervenire il corno e il fagotto, e dopo l’applauso iniziale il maestro guarda negli occhi direttamente te e comincia a dirigere: il sangue non scorre quasi più nelle vene. Ma l’emozione di entrare nel golfo mistico del teatro più importate d’Italia, forse del mondo, la tensione che rimane imperterrita fino alla fine, si scioglie accompagnata dai brividi e, a volte, anche dalle lacrime quando, dopo il rondò finale in cui Cenerentola perdona ognuno e sposa il principe, il teatro colmo di bambini esplode in un boato che non ci si aspetterebbe, specie dopo un silenzio ipnotico che accompagna tutta la rappresentazione. Va da sé che, poi, ogni recita è diversa dall’altra, ogni emozione creata e provata porta con sé nuovi stimoli, nuove istanze, una rinnovata volontà di andare avanti, di fare della musica e del teatro la propria ragione di vita.
In breve, quali sono i vostri progetti futuri?
Continueremo con l’esecuzione di opere in cartellone: Falstaff, di Verdi, con il grande baritono Leo Nucci, nonché Il barbiere di Siviglia, nell’impegnativa estate 2015, durante l’Expo. Con l’orchestra, invece, ancora la Quarta di Tchaikovsky e una tourné in Abu Dhabi con nuovi lavori.
Matteo, in conclusione, cosa credi che, oggi, il teatro alla Scala e la sua Accademia, per un giovane musicista e per l’Italia in generale, possano rappresentare?
In una grande orchestra, in una importante Accademia, un musicista, specie un giovane musicista che non ha la fretta di una stabile posizione lavorativa, sebbene la presupponga per un avvenire più o meno immediato, può trovare vera linfa vitale. Ma quando quest’orchestra vive in una realtà teatrale così grande ed internazionale come il teatro alla Scala, credo che sia il massimo che si possa avere. In più, c’è l’orgoglio di far parte di una istituzione culturale tra le più in vista del proprio paese, e questo non è mero e becero patriottismo, ma coscienza di esser parte in qualcosa di grande alla quale un italiano è per natura chiamato. Questo orgoglio ha l’obbligo di farsi umiltà di fronte ad una scena internazionale che, da tutti i punti di vista, appare superare il livello che si ha in Italia: ciò è pura constatazione di un fatto certo, di come tanta storia politica, tanta programmazione generazionale ha puntato su qualcosa di diverso dal teatro, dalla musica e dalla cultura, spesso traendo poco o nulla e con il solo risultato di impoverire all’inverosimile un settore che, pure, sulla carta, potrebbe essere d’eccellenza a livello planetario. Quanto alla Scala si sta facendo per i ragazzi sembra muovere per il verso giusto, ma ciò da solo non basta, né per la sola Scala, né per il resto d’Italia, ove invece la situazione si fa molto più critica e molto più decadente. Sono forme di pensiero che devono cambiare, se si vuole migliorare, e mi rendo conto che cambiare una forma di pensiero non è così facile e così indolore. Ma l’Italia può rischiare di perdere tutto, anche ciò che non ha ancora perduto, dunque deve darsi seriamente da fare. La mia storia, come piccolissimo ed insignificante tassello, di là dal futuro incerto che ho davanti, può essere una impercettibile, eppure significativa finestra verso la speranza.
di Valerio Tripoli