- Anno: 2015
- Durata: 105'
- Distribuzione: Parthénos
- Genere: Drammatico
- Nazionalita: Francia
- Regia: Marie-Castille Mention-Schaar
- Data di uscita: 27-January-2016
Sinossi: Ispirato a una storia vera. Liceo Léon Blum di Créteil, città nella banlieue sud-est di Parigi: una scuola che è un incrocio esplosivo di etnie, confessioni religiose e conflitti sociali. Una professoressa, Anne Gueguen (Ariane Ascaride), propone alla sua classe più problematica un progetto comune: partecipare a un concorso nazionale di storia dedicato alla Resistenza e alla Deportazione. Un incontro, quello con la memoria della Shoah, che cambierà per sempre la vita degli studenti.
Recensione: Cosa significa la parola Shoah? Catastrofe, distruzione, annientamento. Spiegare ad una classe di adolescenti francesi la più grande tragedia della Storia non è un’impresa semplice, cercare di stimolarli invitandoli a farsi testimoni, attraverso un percorso di rivisitazione della memoria, di ciò che accadde nei campi di concentramento è la sfida che la coraggiosa insegnante di storia e geografia Anne Gueguen (interpretata dall’ottima Ariane Ascaride, attrice che ricordiamo volentieri nei film di Robert Guédiguian) raccoglie, tentando di tornare su una questione che, se trattata frontalmente, può costituire l’occasione per compattare un gruppo di giovani il più delle volte disinteressato a qualsiasi argomento che necessiti di un certo approfondimento.
Ma il film di Marie-Castille Mention-Schaar non si limita a sventolare la facile retorica che certi temi inevitabilmente comportano, fornendo anche il prezioso spunto per innescare una riflessione non banale sull’immagine, laddove si segnala che, per l’appunto, ‘nessuna immagine è innocente’ e che, la maggior parte della volte, s’incappa in ‘immagini idolatriche’. Niente di più vero. L’avveduta professoressa si rivela anche assai esperta di questioni di estetica che sono a tutt’oggi oggetto di un acceso dibattito filosofico. Perché modulare la questione dell’immagine in riferimento all’Olocausto comporta delle considerazioni specifiche, come più volte indicato da Georges Didi-Huberman nell’importante testo Immagini malgrado tutto. Si tratta, dunque, di evitare la tentazione di dare corpo, attraverso un lavoro di ricostruzione, all’orrore, che deve, se non si vuol cadere nella trappola dell’immagine idolatrica, rimanere tenacemente fuori campo, restare invisibile, dato che non esistono documenti che testimonino ciò che accadde nei campi di concentramento quando erano ancora in funzione. Ecco perché appare abbastanza discutibile l’operazione cinematografica di Steven Spielberg con il suo Schindler’s List, soprattutto in riferimento ad alcune sequenze in cui assistiamo ad una ‘cosmesi dell’orrore’, a una sua spettacolarizzazione: è giusto, invece, resistere al desiderio di rendere visibile l’invisibile, lasciando la tragedia in un fuori campo assoluto da cui, comunque, non cessa di riverberare, come un vuoto che erra tra i termini della situazione, su ciò che si mostra in quanto rappresentazione. Bisogna avere fede nelle testimonianze di coloro che subirono il martirio e che miracolosamente si salvarono, senza lasciarsi trasportare, per furore esegetico, da una proliferazione dell’immagine che risponde a una logica di colonizzazione visiva tipica del ‘discorso capitalista’, che tende a voler mostrare qualsiasi cosa, violando anche ciò che per sua natura è osceno, ovvero ‘fuori scena’. Insomma, avere fede, credere, senza il bisogno di un segno visibile che costituirebbe solo un’escrescenza, una ripresentazione di ciò che si mostra sotto forma di testimonianza orale. E qui si potrebbe fare l’elogio dell’oralità, di quella ‘santa ignoranza’ che imperava prima dell’avvento dell’editoria.
Ma torniamo al film: il titolo originale Les Héritiers tiene proprio conto di questa funzione di raccolta della memoria storica dei fatti in questione, tant’è che in un’emozionante sequenza assistiamo all’intervento di un anziano signore che testimonia della sua sventurata esperienza ad Auschwitz, provocando commozione nei giovani ascoltatori, i quali per la prima volta dimostrano un sincero interesse per quelle vicende, inondando di domande l’inatteso ospite. E poi, torna la questione, molto spesso affrontata dal cinema francese contemporaneo, della convivenza delle diversità culturali che abbondano nel tessuto sociale, anzi il concorso che la professoressa propone ai suoi alunni diviene il collante per tenere insieme armoniosamente quelle differenze che tanto spesso degenerano in conflitto. Ma il tema del multiculturalismo meriterebbe una trattazione a parte, nella misura in cui si rivela troppo spesso essere un’invenzione nominalistica per promuovere, attraverso l’elogio della differenza, uno sfruttamento indiscriminato dei soggetti interessati. Insomma non basta la laicità dello stato per gestire una faccenda che culturale in realtà non è, ma in ultima analisi ascrivibile alla sempre operativa legge dei rapporti di produzione.
Una volta nella vita è un buon film e, nonostante scivoli talvolta in qualche patetismo per fare breccia sull’emotività dello spettatore, fornisce, per i motivi sopra elencati, l’occasione per tornare a meditare sulla Storia e soprattutto sul rapporto che intratteniamo con essa. Da vedere.
Luca Biscontini