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Di Apichtpang Weerasenthakul
Con l’approssimarsi della fine un uomo prende commiato dalla vita circondandosi dell’affetto dei parenti e chiamando a raccolta i fantasmi della moglie e del figlio, prematuramente scomparsi. Da questo spunto, tanto esile quanto singolare, il regista Tailandese dal nome impronunciabile imbastisce una storia che procede con assonanze imperscrutabile, e che si fa gioco delle regole della verosimiglianza e della logica, confondendo i piani temporali e le dimensioni dell’esistenza, invitando lo spettatore a seguirlo in questo processo di liberazione, con un mantra sensoriale e visivo tanto ipnotico quanto snervante: una trasformazione apparentemente impercettibile, perché costruita attraverso un uso sistematico della telecamera fissa, un utilizzazione del tempo incurante dei tempi cosiddetti cinematografici e perciò aperto anche a particolari senza apparente significato, e con inquadrature che sembrano spiare da lontano ed in maniera quasi distaccata lo svolgersi della realtà.
Spazi naturali a tutto schermo, la vita dei campi di una fattoria dove si raccolgono pesche, conversazioni di un uomo e di una donna intorno al significato della morte e della vita, sono i segni di una realtà inequivocabile e che però il regista riesce a mettere in discussione inserendo l’inspiegabile sotto forma di fantasmi che assumono una corporalità umana o animalesca (scimmie volanti o gorilla con gli occhi fluorescenti), oppure, dopo lo sconcerto iniziale, mettendo i personaggi e lo spettatore all’interno di un contenitore dove l’elemento metafisico e quello realistico diventano la stessa cosa.
Con una luce naturale pronta a cogliere i passaggi tra il giorno e la notte (una metafora dell’imminente trapasso) ed un utilizzazione del suono che spazia da quelli ambientali, quasi sempre rubati alla foresta che circonda la fattoria in cui si svolge la vicenda, a quello artificiale ma non meno evocativo- un sibilo ossessivo che preannuncia l’indicibile alla maniera di certe immersioni Lynchiane- il film si trasforma in qualcos’altro: se la storia non puo esistere senza il corredo religioso spiritista (non solo i fantasmi ma anche il richiamo alle vite precedenti rappresentate dall’episodio dell’accoppiamento tra la regina ed il pesce), così il film non sarebbe se stesso senza i continui cambiamenti che mischiano generi (sociale, intimista, fantasy) e stili (la veggenza del morituro appare attraverso una serie di scatti fotografici che sono un misto tra reportage documentaristico ed improvvisazione dilettantesca), finendo per diventare il simbolo di un indipendenza artistica e umana che da sempre appartiene alla filosofia del regista.
Detto questo “Uncle Boonmee” rimane un film di difficile fruizione per la sua “disorganizzazione", troppo legata a ciò che rimane fuori campo (simbolismi e riferimenti spiegabili solo alla luce di conoscenze che sfuggono ai non addetti) e che rischia di farlo diventare un oggetto antropologico piuttosto che cinematografico. E se alcuni momenti riescono ad affascinare per il primitivismo che li contraddistingue- evidente il contrasto tra la natura in cui l’uomo si riconcilia con se stesso, e la città rappresentata nella scena conclusiva, con un bar che assomiglia ad un non luogo, e che come nel celebre quadro di Edward Hopper raffigura in maniera evidente l’alienazione degli astanti-per la maggior parte del tempo il film sembra quasi bearsi della sua cripticità.
Palma d’oro all'ultimo Festival di Cannes, Uncle Boonme è destinato a diventare l’ennesimo oggetto misterioso promosso da una giuria sposata agli equilibri geopolitici ed alle ragioni produttive.
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