“Parru cu tia, to è la curpa, cu tia, to è la curpa, nmenzu a sta fudda ca fai l’indifferenti”.
Ignazio Buttitta
Sempre più spesso ormai mi capita di soffermarmi sui volti dei bambini.
Li osservo, studio i loro comportamenti, i gesti, il modo di parlare.
Provengono quasi tutti da microcosmi regolati da intricati labirinti di codici, difficilmente decifrabili.
Sembra che abbiano eretto un muro, apparentemente invalicabile, fra ciò che sta dentro e quello che sta fuori.
Gli occhi non sbagliano mai.
Sanno che il futuro è una parola enorme da pronunciare.
Sanno che devono imparare alla svelta come gira il mondo, per non rimanere schiacciati.
Sanno che anche all’inferno si deve necessariamente provare ad essere felici.
Ne conosco diversi, in loro vivono tutti i contrasti di questa terra, tutte le contraddizioni. Oggetto di pregiudizi e luoghi comuni portano addosso il marchio di un’infamia secolare.
Sbandati, ladri, spacciatori, MALACARNE.
Così li chiamano.
Distruggendo la loro diffidenza appaiono in tutta la loro dolcezza, in tutta la loro umanità.
E’ la mancanza di alternativa il vero problema, il credere, loro per primi, di non avere nessuna possibilità. Come se ancor prima di nascere un giudice li abbia condannati all’ergastolo.
Ballarò, Vucciria, Brancaccio, Zen.
Nomi evocativi, spesso pronunciati a sproposito dall’intellighenzia per rendere più “vissuti” i discorsi, per colorarli di un inutile folklore, adatti alle guide turistiche.
La fotografia, tutta, dovrebbe essere civile.
Dovrebbe assumersi la responsabilità di mostrare la reale realtà delle cose, farsi portavoce di denuncia e di speranza.
Indagare l’ombra che si nasconde dietro al sole, regalare una speranza, sia pur minima alla gente. Senza giri di parole, senza metafisica alcuna.
0.000000 0.000000