Perché Underwater Love (e per una volta non crocifiggiamo solo i titolisti italiani, anche questo di titolo lascia parecchio a desiderare) è un film dannatamente bislacco in cui le stramberie erotiche, ad ogni modo brevi e, come detto, molto caste, cedono il passo ad un soggetto folle che ha uno sviluppo sulla medesima falsariga; la proliferazione di “cose” stravaganti va necessariamente citata: alla base di tutto c’è la presenza di un Kappa, figura del folklore giapponese che ama l’acqua e i cetrioli (un gradimento che nel contesto filmico non stupisce affatto), qui nelle vesti post mortem di un vecchio compagno di scuola della protagonista; l’aspetto di questo Kappa è un incrocio tra un umano e una sorta di tartaruga, infatti l’essere ha l’anatomia di un uomo con in più uno scudo sulla schiena, pseudo-becco-muso, mani e pene squamosi, calotta cranica in vista. Oltre a tale creatura, assolutamente parodizzata a partire dal trucco amatoriale (plausibile omaggio ai monster –movie d’epoca o altrettanto possibile effetto di un budget limitato), la pellicola in tutta la sua interezza non ha la benché minima voglia di scendere a patti con la realtà e quindi si impegna costantemente a deragliare nell’assurdo, ad esacerbare la componente sentimentale fino a renderla ridicola (le due storie d’amore parallele sono talmente insulse e sciocche, talmente portate all’eccesso, che risultano più veritiere di qualunque rom-com), innaffiando periodicamente la storia con improbabili stacchetti musicali. E tutto svolto con quella consapevolezza più o meno accentuata, dote fondamentale citata all’inizio.
La pochezza contenutistica (anche se le tematiche nel finale aprono spiragli di profondità) similare ad un’esiguità espositiva (probabilmente digitale, probabilmente non per vezzo ma per esigenza) lasciano pochi residui degni di nota, ciononostante il film di Imaoka rivela a modo suo la capacità di sottolineatura mitopoietica del cinema, laddove il mito è doppio: il primo è la leggenda del Kappa, punto irremovibile della vicenda che tra l’altro, con i ravvicinati rapporti sessuali del finale, spezza un sortilegio come nelle migliori tradizioni fiabesche, mentre il secondo mito, che potrebbe essere virgolettato, è il remix del genere pink: riadattazione, rivisitazione, esplorazione, rianimazione.Il sesso è periferia, il centro un prisma anarchico.