Unico Indizio la Luna Piena (1985)

Da Elgraeco @HellGraeco

Se vi state chiedendo il perché di questo film e della sua presenza qui, è presto detto. Non dimenticate che me ne sbatto, allegramente e ogni volta che è possibile, del cinema “alto” e preferisco di gran lunga, a un’ordinata libreria piena di titoli “intellettuali”, affiancati in ordine alfabetico e in qualità crescente, immergermi in quei cestoni pieni di dvd a 2 euro in cui titoloni dimenticati si spartiscono la visibilità con beceri film scollacciati.
Unico Indizio la Luna Piena (“Silver Bullet”, 1985) è un film che appartiene di sicuro a qualche genere. Non ne ho idea. Dicono sia un horror. Già criticato, inscatolato e messo in qualche casella di categoria. Ma è soprattutto una favola nera. E io, se a quattordici anni Dino De Laurentiis fosse venuto da me offrendomi la parte del protagonista, l’avrei fatto anche gratis.
Volete mettere scegliere tra ammorbarsi tra i banchi di scuola o fare un film coi licantropi? Non c’è alternativa possibile. La via è una sola. Girarlo.
È una favola, dicevo, è c’è il lupo cattivo. Il Mannaro. Uno di quei mostri che da ragazzo ti ossessiona e, a volte, finisce per ossessionarti anche da adulto.
So cosa si pensa di lui: è l’archetipo dell’adolescenza, del suo conflitto, ma anche sinonimo della bestia interiore, del lato oscuro e istintivo che c’è in tutti noi. Questo tra le altre cose. Quell’ammasso di muscoli, pelo e zanne viene svilito così in una banalissima tara mentale e nel suo superamento, necessario per diventare grandi e fuggire via dall’era fantastica.
Per fortuna ci sono anche quelli che il licantropo lo vedono per quello che è: creatura semi-umana che riscalda le notti dell’inconscio col suo fiato greve, il suo manto scuro e le sue zanne aguzze.

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Rise and Fall of the Lycans

Cosa ne penso dei licantropi e di come vengono trattati al cinema l’ho già detto qui.
Necessario, per la loro sopravvivenza, in quanto specie protetta, è il mimetismo sociale, fingere di essere umani e atteggiarsi a serial killer. Per essere considerati individui di culto e non semplici mostri.
Questa teoria, assecondando la sospensione dell’incredulità. Ammettendo di entrare nell’atmosfera di un film.
In pratica, il licantropo soffre del suo stesso aspetto. La sua figura, che nella nostra testa è possente e selvaggia, al cinema è oltremodo ridicola. Non c’è scampo.
E lo è in “Silver Bullet”, come nel recentissimo “Wolfman”. Non so a voi, ma a me Benicio del Toro versione uomo-lupo mi ha fatto solo ridere.
Rappresentare bene un lupo mannaro è quindi, a tutt’oggi, impresa impossibile.
Lo sapeva bene anche De Laurentiis che ordinò l’inizio delle riprese nonostante non fosse ancora pronto un costume e, pertanto, il licantropo non fosse ancora disponibile, e che non fece mancare critiche quando, una volta pronto, il costume venne indossato da un maestro di danza con la speranza che il suo talento nel movimento sopperisse là dove la vista veniva irrimediabilmente compromessa.
Il risultato è poco più che mediocre.

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[Ok, spoilers...]

Il Re

Altra cosa da notare, e da notare bene. A differenza vostra, non ho mai letto un libro di King. TA-DAAN. Ne ho cominciati un paio, è vero: “IT” e “L’Ombra dello Scorpione” e, oh, sì, anche il primo de “La Torre Nera”. Quindi sono ben 3. Risultato?
King era già troppo per me. A quel tempo e anche oggi che dicono sia addirittura peggiorato.
Se voi avete letto, invece, il romanzo breve omonimo, non perdete l’occasione di farmi notare le eventuali analogie o differenze con la pellicola.
Il film, dunque. È ricco di stereotipi, realizzato con tecnica e mezzi da tv-movie, costò circa 7 milioni di dollari e ne incassò circa 5.5.
Eppure, c’era il ragazzino simpatico, Marty (Corey Haim) che riesce a superare sé stesso e le proprie paure e a far fuori il licantropo. C’è la sorella che lo odia, Jane (Megan Follows), ma in fondo gli vuol bene. Ci sono i genitori che non ascoltano perché sono bravi genitori. C’è John Locke, alias Terry O’Quinn, che fa lo sceriffo sfigato e maltrattato da tutti; la cittadinanza di cacciatori, tutti armati di fucile, che vanno tutti a caccia di assassini per linciarli e, soprattutto, c’è Gary Busey, lo zio Red, lo zio che ogni ragazzino vorrebbe avere, quello che ti costruisce la moto con le sue mani, che a ogni compleanno te ne regala un’altra ancora più potente, che gioca a carte, beve whisky e cambia fidanzate e mogli a un ritmo impressionante.

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Il Jolly e il Reverendo

Gary lo reputo un grande attore. E non è un cosa che dico spesso. La prima volta che lo vidi, impegnato a fare surf sul ripiano della sua scrivania davanti a un belloccio Keanu Reeves, era alle prese con la banda degli ex-presidenti. Ed è un tipo versatile, cui riescono i ruoli da buono, così come quelli da cattivo coi fiocchi. Uno dalla vita sfortunata e fortunata insieme, ma anche avventurosa, talmente tanto che mi domando perché mai non ne abbiano ancora tratto un film. Uno di quelli pallosi, biografici. E forse Gary lo sa [che sono inutili, quei film] e ha messo il veto. Quelle sono cose che si concedono quando sei in rosso, o quando sei morto.
Accanto a lui c’è il Reverendo Lowe (Everett McGill). Un cattivo di statura superiore. Vuoi per la fisionomia, magra e inevitabilmente malvagia, ma anche per le scene di pregio che si trova a interpretare.
La voce narrante è quella di Jane, testimone degli eventi e anche protagonista. Il punto di vista è quello di Marty. Lo zio Red è tutti noi, tutti quelli non tanto irrigiditi dalla vita e disposti ad accettare le deliranti storie sui lupi mannari dei propri nipoti. E il Reverendo è sia pastore che lupo. Di giorno tenta inutilmente di redimere una cittadina cinica, dimora, credo, di ogni sottile incubo Kinghiano.

Nella città sono tutti cattivi, a cominciare dall’amico di Marty che all’inizio rende Jane bersaglio dei suoi sciocchi scherzi, per continuare con futuri padri che non si prendono le proprie responsabilità, gentaglia che, al contrario, se la prende coi disabili, e falliti, come lo sceriffo, che occupano posti di responsabilità. Tutto vero, tutto reale. Il Reverendo sa che sono tutti malvagi, li vede in sogno trasformati da lupi. Di notte, con la luna, li redime con il loro stesso sangue.
Unico rimpianto è la regia di Daniel Attias. Non tanto per lui, quanto per il fatto che “Silver Bullet” l’avrebbe dovuto dirigere Don Coscarelli, quello di “Phantasm“. Sarebbe stato tutt’altro film. Di licantropi, certo, ma con qualche alieno o qualche dimensione parallela.
Il cinema è davvero bello, a volte.

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