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Non è un romanzo, il volumetto Uno psicologo nel lager di ViKtor Frankl pubblicato da Ares nel 2011. E nemmeno solo una di quelle testimonianze sui Lager cui siamo forse, ahimè, fin troppo abituati. Straordinarie alcune certo, e preziose per la maggior parte: offrono documenti storici essenziali per gli specialisti e raccontano vicende umane capaci di rivoluzionare la visione del mondo del lettore, riscuotendone il senso di responsabilità politica e morale. Se adottiamo uno sguardo più ampio, ci accorgiamo che si tratta di una guida contro la "malattia del filo spinato". Certo fu scritto – meglio, dettato dalla voce rotta e commossa dell'autore – in soli nove giorni all'indomani della liberazione dal lager, dopo che Frankl aveva appreso dello sterminio della sua famiglia Ma Uno psicologo nel lager è molto più di un “testo della memoria”. Perché Viktor Franzl è uno psicologo, fondatore della “logoterapia”. E alla psicologia già si era avvicinato prima della sua reclusione. Franzl dunque visse il lager nazista da uomo sensibile alle ricadute sulla psiche degli eventi più abnormi dell'esistenza. E in un tempo come il nostro, post-fluido, confuso, disorientato, così drammaticamente insidiato dalla depressione, il suo esile e come appena tratteggiato racconto, così come la sua interpretazione di quanto si è succeduto nella psiche della maggior parte dei detenuti nei campi di concentramento o di sterminio nazisti, risulta quanto mai attuali. La sua sensibilità, profonda e vitalissima, ha avuto il coraggio di “vedere” lo stravolgimento dell'umano nel cui rischio sono incorsi coloro che nei lager dovettero tentare di sopravvivere.
E proprio questo sguardo superiore rende Uno psicologo nel Lager un testo interessante per il lettore di oggi foss'anche non interessato al genocidio perpetrato dai nazisti nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Sull'istanza cronachistico-narrativa prevale infatti l'urgenza primaria di comprendere le cause e le conseguenze dell'invadente disumanizzazione, e di intervenirvi per attenuarne gli esiti più estremi. Uno psicologo nel Lager è dunque sì un racconto di commoventi squarci della vita nei campi ma soprattutto di riflessioni su come si possa sopravvivere in condizioni che rischiano di distruggere quanto di autenticamente umano è in ognuno di noi. Un volumetto in cui, quasi miracolosamente, si ritrovano la memoria di un'esperienza diretta, feroce ma come alleggerita, combattuta e superata; l'acuta ricettività e capacità interpretativa dei mutamenti interiori lucidamente osservati (oltre che fruttiferi per la successiva elaborazione della logoterapia); l'attiva partecipazione al tentativo di salvare psicologicamente e fisicamente i compagni di detenzione, l'umiltà solare di chi non pretende di offrire risposte ma tenta di comprendere, in sé stesso prima che negli altri, il disagio del prigioniero disconosciuto e sradicato, e di opporsi ai possibili esiti fatali di quello stesso disagio. Ecco allora Frankl ricordarci l'importanza dell'immaginazione, soprattutto quando essa è ricordo delle persone intensamente amate, laddove incomba il pericolo dell'alienazione disperante; dell'ostinata fiducia in un futuro differente, anche quando l'annientamento pscilologico sembri rendere impensabile ogni prospettiva di un domani diverso; della coscienza che, dopo la liberazione fisica dai persecutori, si possa incorrere nell'incubo della delusione e dell'amarezza a cui si può cedere od opporre la ricerca di un senso alla sofferenza subita, la quale ne risulta dignificata. Retrospettivamente, Frankl invita così a riflettere su come si possa vivere senza abdicare alla propria umanità anche in situazioni estremamente sfidanti. Per Frankl, e per molti suoi lettori, il dolore ha acquisito un senso e ha insegnato la libertà di poter reagire secondo se stessi alle concrete condizioni in cui la vita può catapultare, per quanto possano essere stranianti. Ha insegnato la responsabilità di fronte a ciò che pare un destino kafkianamente immotivato e spietato. Ha insegnato che in questa responsabilità risiede la massima forma di dignità umana: la libertà. Ecco perché Uno psicologo nel Lager si inserisce a ragione – volendo – nella “letteratura del lager". Ma esso è molto più di un tassello della nostra memoria storica e civile. È o può essere un compagno o una guida nel nostro percorso di educazione morale, un supporto e una luce quando ci si senta prigionieri, anche se non fisicamente; ed è o può essere un memento su come si possa trasformare anche il più impensato orrore in una tappa costruttiva di un percorso esistenziale. Credo che, di là dall'ammirazione che l'uomo Viktor Franzl, coi limiti umilmente dichiarati da lui stesso nel suo “diario” di uomo-ricercatore, può e dovrebbe suscitare in noi, questo libretto possa insegnare a un'era persa tra presente e passato come la contemporanea non solo come qualcuno affrontò coraggiosamente il passato, ma come noi possiamo gestire un inafferrabile presente. Questo volumetto può essere, oggi, un libro per chi soffre della “malattia del filo spinato”, successiva allo shock dell'accettazione dell'orrore con cui si è costretti a convivere, al delirio della speranza in una qualche sorta di grazia salvatrice, finanche all'apparente liberazione da ciò che concretamente ci tortura. Perché, se per sopravvivere si può essere costretti a diventare disgusto, indignazione, terrore, indifferenza, e se ci si si può lasciar morire, si può pure attingere alle proprie più impensate risorse interiori, liberandosi o lottando contro ogni forma di corruzione indotta dalla prigione che è fuori di noi e troppo spesso in noi rimane radicata dopo la liberazione materiale. Poiché sta all'uomo, scrive Frankl, trasformare il proprio destino in un'occasione di conquista interiore. Per l'autore, “vivere, in ultima analisi, non significa altro che avere la responsabilità di rispondere […] ai problemi vitali” così come imprevedibilmente si presentano, ancorandosi alla gioia del passato, non rinunciando all'immaginazione del futuro, trovando un senso al dolore, responsabilmente affrontando le difficoltà dell'esistenza affermando la libertà di essere degni di vivere