Roberto Grossatesta - iniziale dai suoi "Dicta", ultimo quarto del XIV secolo - Londra, British Library.
Se c’intrufolassimo in una lezione di Filosofia Naturale nelle Università di Oxford e di Parigi del XIII secolo, saremmo sicuramente sorpresi di cogliere almeno tre curiose parole in latino, dal suono a noi molto familiare: experientia, experimentum e scientia experimentalis.
Infatti, per quanto strano ci possa sembrare, quello che noi chiamiamo metodo sperimentale (dimostrare una teoria scientifica attraverso una serie di esperienze mirate), che poi sarebbe esploso a partire da Francesco Bacone alla fine del Cinquecento e portato avanti nel Seicento da Galileo, Cartesio e Newton, ha le sue radici proprio nelle teorie dei Filosofi della Natura francesi e inglesi di XIII secolo, che perfezionarono i metodi logici di dimostrazione elaborati nell’Antichità soprattutto da Aristotele ed Euclide.
Uno dei pionieri in questo senso fu sicuramente Roberto Grossatesta, un ecclesiastico inglese nato a Stradbrock nel 1168; si laureò in Teologia all’Università di Oxford, ma grazie alla sua straordinaria cultura divenne in breve maestro e poi cancelliere. Aveva infatti profonde conoscenze, non ultima quella del Greco: tradusse l’Etica Nicomachea di Aristotele e vari scritti di Giovanni Damasceno e Dionigi Aeropagita. Nel 1235 dovette interrompere la sua attività di insegnamento perché venne nominato vescovo di Lincoln; la sua esperienza e la sua intelligenza, però, sarebbero state ancora richieste, come ad esempio nel 1245, quando fu chiamato a partecipare al concilio di Lione. Sarebbe morto nel 1253. Il suo interesse per la Filosofia della Natura lo portò a scrivere trattati sul calore, sulla natura dei colori, sulla generazione dei suoni, sulle comete, sulle maree, sul moto degli astri, sull’arcobaleno.
Maestro con astrolabio - miniatura dal "Computus correctorius" di Roberto Grossatesta, seconda metà del XIII secolo - Londra, British Library.
Tutte queste indagini sono basate su un metodo di ricerca sorprendente.
La base di partenza è sempre quella del sillogismo di Aristotele, composto dai due momenti della resolutio (analisi), cioè l’individuazione del fenomeno attraverso l’accostamento di vari esempi concreti, e della compositio (sintesi), in cui si identifica la causa che ha prodotto quel fenomeno.
Roberto Grossatesta, però, compie un passo in avanti, perché a differenza di Aristotele, non ritiene sufficienti i sillogismi per ricavare la causa a partire da un effetto, perché, dice, un effetto in natura può avere anche più di una causa. E’ necessario mettere alla prova una ad una tutte le cause possibili con una serie di esperienze mirate per trovare la causa reale. Il che è esattamente il principio su cui si baserà il metodo sperimentale nel Seicento.
Matematico - miniatura dal "Computus correctorius" di Roberto Grossatesta, seconda metà del XIII secolo - Londra, British Library.
Un altro aspetto sorprendente del metodo di Roberto Grossatesta è l’importanza fondamentale data alla matematica. Qualcuno si è spinto a dire che proprio con il vescovo di Lincoln sia cominciato quel processo di “matematizzazione della natura” che sarebbe stato poi portato alla ribalta da Galileo.
Il Grossatesta ritiene che la conoscenza della natura avvenga su due livelli: quello particolare, relativo alla singola scienza cui fa riferimento il caso concreto da prendere in esame (astronomia, acustica, ecc.), e quello universale, che riguarda la totalità della materia. Ora, ad un singolo fenomeno si può trovare una spiegazione parziale seguendo le leggi della scienza che lo riguarda, ma la spiegazione sarà pienamente soddisfacente solo alla luce delle conclusioni di una scienza che sia universale, dato che, alla fine, la materia è una sola, si tratti dei corpi celesti o dei suoni. E le uniche scienze universali sono quelle matematiche, l’aritmetica e la geometria.
I pianeti - miniatura da trattato matematico di Roberto Grossatesta, XIII secolo - Londra, British Library.
Vale la pena di entrare in dettaglio su questo punto, perché Roberto Grossatesta ha elaborato una concezione del mondo e della materia suggestiva e originale.
Noi oggi sappiamo, grazie allo sviluppo della fisica atomica, che tutto quel che ci circonda è composto di quark e che dunque, in fondo, la materia è costituita dagli stessi elementi, aggregati in modi diversi secondo regole ben precise. Ma questo concetto che a noi sembra così scontato in realtà non lo è affatto, soprattutto in epoche che non conoscevano il microscopio: ad esempio, nel progredito Ottocento, che vedeva la nascita della chimica scientifica, la maggior parte degli studiosi bollava come inverosimile l’idea dell’unità della materia, finendo per ipotizzare un numero ancora più inverosimile di elementi base diversi.
Ebbene, Roberto Grossatesta riteniene non solo che la materia sia una sola, ma che derivi da un’unica forma, che lui chiama lux; non si tratta però della luce visibile, il lumen. La lux, secondo la concezione del vescovo di Lincoln (espressa in particolare nel trattato De Luce), sarebbe la forma primigenia impressa da Dio ad un punto originario di materia primordiale. Di conseguenza, tutte le caratteristiche del mondo naturale deriverebbero da questa forma universale che trasmetterebbe alla materia il comportamento geometrico tipico della luce. Questo implica che si possa studiare, ad esempio, il suono o il calore applicando le leggi dell’ottica. Non solo, i corpi si invierebbero a vicenda degli influssi sotto forma di “raggi”.
Una visione del genere ha certamente i suoi difetti, ma contiene in sé i semi di molte scoperte poi emerse con la scienza moderna. Un principio del genere è alla base, per esempio, delle onde elettromagnetiche, che coinvolgono sia l’ottica sia l’acustica; o delle radiazioni emanate da alcuni elementi. Non solo, l’idea di un Universo nato sostanzialmente da un punto di “luce” verrà ripresa ai primi del Novecento, con il nome di Teoria del Big Bang.
Diagramma - miniatura dal "Computus correctorius" di Roberto Grossatesta, seconda metà del XIII secolo - Londra, British Library.
L’aspetto più originale del pensiero scientifico di Roberto Grossatesta forse è proprio quello che emerge dai suoi studi sulla luce, soprattutto nel De Luce e nel De Iride, perché sembrano anticipare in molti sensi le scoperte di Newton, quattro secoli dopo.
Il Grossatesta distingue tre forme di propagazione della luce, basate sui teoremi geometrici di Euclide e sul principio di economia, cioè sul principio secondo il quale «la natura opera nel modo migliore e nel modo più breve possibile»:
- rettilineo - la retta è la linea più breve tra due punti, dunque trasmettere la luce in modo rettilineo permette di “economizzare” energia;
- riflessione – sempre per il principio di economia, la natura preferisce l’uguale al diseguale, di conseguenza l’angolo di incidenza è uguale all’angolo di riflessione;
- rifrazione – quando il raggio incontra un elemento più denso, il suo corso si avvicina alla linea perpendicolare, la linea più diretta che consente di sprecare meno energia possibile e dunque di penetrare con più forza. Tanto più l’elemento con cui la luce entra in contatto è denso, tanto più il raggio rifratto tende ad allontanarsi dal suo percorso iniziale.
Queste tre forme si rivelano preziosissime nel momento in cui Roberto Grossatesta affronta, nel De Iride, il problema del funzionamento dell’arcobaleno.
Il punto di partenza è, ovviamente, Aristotele, secondo il quale l’arcobaleno sarebbe la luce che la nube riflette verso l’occhio dell’osservatore. Ora, il vescovo di Lincoln obietta che, se le cose stessero davvero come dice Aristotele, l’arcobaleno dovrebbe apparire tanto in alto quanto il sole da cui proviene la luce che la nube riflette, cosa che nella realtà non accade per niente; e men che meno può essere originato da un fascio di luce propagato in modo rettilineo, o in questo caso l’illuminazione sarebbe uniforme e assumerebbe la forma della nube attraverso cui passa invece che quella di un arco.
Di conseguenza, l’unica possibilità che rimane è quella della rifrazione. E che l’arcobaleno sia ottenuto per rifrazione della luce attraverso un corpo sarà esattamente la sostanza delle conclusioni di Newton.
La provocazione lanciata da Roberto Grossatesta in questo senso sarà raccolta e perfezionata dal suo allievo Ruggiero Bacone e, un secolo dopo, dal tedesco Teodorico di Freiberg, i quali indicano come mezzo di rifrazione non più la nube, ma le gocce di pioggia.
Se si può ravvisare un limite importante a questi primi approcci al metodo sperimentale, è che si tratta di una sperimentazione per la maggior parte solo matematica: il dialogo tra concetti teorici e sperimentazione pratica era ancora incompleto. La pratica della misurazione sistematica non si sviluppò all’interno delle Università, ma fuori, nelle arti meccaniche: architettura, musica, farmacologia, amministrazione e commercio.
Sarà nel XVII secolo che questi due approcci alla realtà, fino allora paralleli, s’incontreranno: allora l’episeme, la speculazione, verrà poco a poco abbandonata, in favore della techne, la scienza empirica, quantificata, che diverrà l’unico approccio possibile alla conoscenza della natura.
E’ stata questa, in sostanza, la Rivoluzione Scientifica del Seicento. Ma non sarebbe stata possibile senza le basi gettate dai Filosofi della Natura come Roberto Grossatesta.
Bibliografia
Alistair Cameron Crombie, Da S. Agostino a Galileo: storia della scienza dal V al XVII secolo, Feltrinelli, Roma 1970;
Id., Robert Grosseteste and the origins of experimental science, 1100-1700, Clarendon Press, Oxford 1971;
Luca Tampellini, Ruggero Bacone: un passaggio nodale all’origine della scienza moderna, Cantagalli, Siena 2004;
Sulle spalle dei giganti. Luoghi e maestri della scienza nel Medioevo europeo, a cura di Euresis, catalogo della mostra organizzata in occasione della XXVI edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli (Rimini), Seed, Milano 2005.