L’ultimo ricordo che aveva era il soffitto della sua camera e la luce soffusa che irradiava dalla lampada sul comodino, solo che ora si trovava a casa dei nonni. Ne era sicuro, nonostante non vedesse ad un palmo di naso. Doveva essere andata via la corrente. Quelli della compagnia elettrica sceglievano sempre gli orari più indisponenti; o forse era un semplice guasto. Qualche stupido procione doveva essersi arrampicato su per un palo ed aver mandato in tilt la centralina.
L’ultima volta che c’era stata un’interruzione delle linee aveva sbattuto l’alluce su una quantità indefinita di sporgenze ed angoli puntuti, sparsi come trappole per la selvaggina in tutta la casa, mentre cercava disperatamente di raggiungere il bagno. Ovviamente l’aveva fatta al buio e la mira non era stata impeccabile. Nel ripulire aveva scoperto che la bottiglia di detersivo era in realtà un reagente chimico di qualche tipo che suo nonno aveva mal riposto dopo un lavoraccio più o meno riuscito alle tubature della cucina (il vecchio Herb aveva la passione per la pittura e la sbadataggine tipica degli artisti eccelsi), e questo aveva fatto reazione con lo stuoino, mangiandoselo in buona parte. Inutile dire che sua nonna aveva fatto il diavolo a quattro, anche se poi l’aveva subito perdonato con un’offerta di latte e biscotti: i vecchi non hanno voglia di perdere tempo dietro alle stupidaggini, alla loro età il tempo è diventato un abile ladro che entra di soppiatto ogni qual volta vede uno spiraglio.
Billy si alzò a sedere. La schiena gli mandò una folgore dispettosa che lo fece trasalire inaspettatamente. Solo dopo che fu passata si rese conto di quanto fosse freddo ed umido il suo giaciglio. Era gelido.
Allungò istintivamente la mano per chiudere la finestra e non trovò nulla, se non una corrente d’aria altrettanto gelida. Fece per mettere i piedi in terra, aspettandosi di trovare le ciabatte, anziché il freddo e pietroso terriccio sul quale si posò. Si guardò i piedi e vide che aveva calpestato una manciata di fiori.
Accidenti, ho rovinato questa splendida aiuola, fu tutto quello che gli venne da pensare e mentre si inginocchiava, il suo sedere cozzò qualcosa di duro e spiacevolmente freddo. Si girò e si ritrovò a contemplare delle lettere leggermente in rilievo, vergate di una tenue doratura:
HERBERT JAMES SILVERMAN
16 ottobre 1947 – 27 febbraio 2011
Padre amorevole
Non ne fu sorpreso. C’era qualcosa in quel necrologio così conciso, qualcosa di talmente palese che lo lasciò interdetto, come avesse difficoltà a comprendere il senso di quell’idioma. Poi capì: mio Dio, no! urlò, ma fu solo nella sua testa, dalla bocca non uscì neanche un flebile suono.
C’era una crepa nel mezzo della lapide, sicché il necrologio risultava spezzettato ma comprensibile. La percorse con lo sguardo. Dove si interrompeva, c’era un ovale di piccole dimensioni, cosa piuttosto insolita. Si chinò per esaminarlo da vicino. All’interno vi era stato inserito qualcosa. Le ombre si ritirarono per un momento e Billy saltò all’indietro come fosse stato colpito da un cazzotto. Il tetro faccione lunare rivelò ciò che le ombre avevano misericordiosamente celato.
No! Dev’essere un brutto sogno, solo un brutto sogno. Articolò le parole, ma quando mosse le labbra fu come vedere un pupazzo fare il suo numero sprovvisto di ventriloquo.
Nell’ovale c’era la foto a mezzo busto di suo nonno… o meglio, di quello che ne rimaneva.
Un ciuffo sparuto di capelli bianchi era tutto ciò che era sopravvissuto della chioma canuta, ancora rigogliosa nonostante l’età. La pelle era pallida e lucida e cadente. Gli zigomi sporgevano come assi sconnesse, impossibile non notarne l’oscenità accompagnata dal generale degrado del viso: pareva uno scheletro con indosso un abito fatto con la pelle di suo nonno. Era smunto, infossato, soprattutto attorno agli occhi, dove si era diffuso un livore che pareva quasi la sbavatura di un pittore incapace.
Un pittore che dipinge in una cripta la sua tela di pelle umana, montata su un cavalletto di femori svettanti e scintillanti come l’avorio.
Ma ciò che lasciava il segno era l’espressione di quel mezzo busto grottesco.
Un sorriso indifferente aleggiava sulle labbra violacee e gli occhi, Dio avesse pietà, erano brillanti, volpini. Non erano occhi di un defunto quelli. L’uomo in quella foto aveva visto lande e colori di tale assurdità da renderlo pazzo per sempre.
Billy iniziò ad indietreggiare, lentamente. Sapeva per qualche strano motivo di dover correre via, perché stava per iniziare qualcosa di scellerato, qualcosa al quale non voleva assistere, ma non ci riuscì. Scoprì che non poteva voltarsi e scappare. Sentiva le gambe pesanti, come se qualcuno vi avesse applicato dei pesi invisibili. Non poteva fare altro che muoversi ad una lentezza esasperante, mentre la terra davanti alla tomba di suo nonno iniziava ad alzarsi ed abbassarsi, come un ventre gravido ed ansante. La lapide sobbalzava, inclinandosi sempre di più ad ogni smottamento.
Tenta di uscire. Non può. E’ morto. I defunti dovrebbero stare sotto terra, è lì il loro posto. Perché vuoi uscire? Eh, nonno? Non c’è più niente per te, qui.
Questi pensieri sconnessi gli vorticavano in testa intanto che l’impietoso argento lunare si spandeva nella notte, rivelando un mondo di lapidi frementi. Il terreno si contorceva davanti ognuna di essa. E quando la lapide con la crepa nel mezzo si spaccò a metà ed una mano martoriata uscì a ghermire l’argento notturno, Billy riaprì gli occhi nella sua confortevole stanza al secondo piano della casa paterna in Maple Street.
La luce sinistra e crepuscolare dei lampioni entrava di sbieco a ricordargli che non c’erano cimiteri lungo Maple Street. Bisognava scendere fin sulla Main Street per ritrovarsi davanti al cimitero di Harmony Hill, sito su un piccolo altopiano dal quale dominava la città.
Vi era passato solo un paio di volte da quando erano cominciati i brutti sogni, ma mai aveva avuto il coraggio di oltrepassare il cancello brunito. Non che avesse timori reali, benché nei sogni la realtà e la fantasia siano due sostanze mescibili dello stesso brodo mentale, ma non se la sentiva di affrontare la concretezza di quel posto. Le lapidi svettanti come unghie sporgenti di giganti sepolti, i mausolei artificiosi come monumenti inneggianti alla morte, eppure la vegetazione così ben curata, così… viva. Il contrasto fra le due cose lo mandava ai pazzi; non c’è che dire, quel posto non gli piaceva neanche un po’. Specialmente lo raggelava la bruma notturna che serpeggiava attorno alle lapidi come uno spirito inquieto in cerca di compagnia.
Questi erano i pensieri che vorticavano nella mente ancora intorpidita dal sonno di Billy mentre dalla finestra della sua stanza saggiava l’aria pungente del primo mattino, lasciando andare lo sguardo, senza saperlo, giù per Maple Street, in direzione di Harmony Hill.
Erano le sei di un nuovo mattino ed il primo sole riconsegnava i colori alla cittadina sopita, mentre giù ad Harmony Hill, qualcosa riparava nelle poche sfuggenti ombre, in attesa di un nuovo crepuscolo.