Il commediografo latino Plauto, nell' Asinaria, scriveva: lupus est homo homini, l'uomo è lupo per l'uomo. Umanità e bestialità conducono da sempre uno scontro intramontabile, e questo altro non è che una distinzione istituita laddove le due facce di una stessa medaglia si ritrovano a combaciare pericolosamente. L'inquietudine nasce nel momento in cui si percepisce di possedere la dignità di una persona limitatamente al controllo degli impulsi più istintivi: la barriera di separazione si incrina facilmente, la contaminazione può dilagare da un momento all'altro. La storia è fatta di questa dualità, ma dov'è che i due poli acquistano maggior peso, se non durante una manifesta esplosione di insensata violenza? Proviamo a vedere la seconda guerra mondiale come un grande set cinematografico: in molti l'hanno fatto, certo, ma non sempre Hollywood risulta soddisfacente nella perspicacia con cui rende l'eroismo e la potenza alla portata di tutti. Le inquadrature possono essere realizzate da varie angolazioni, e non è necessario esasperare fino all'eccesso le vicende umane; del resto, cos'è stato, quell'immenso conflitto, se non l'insieme di tante, tantissime azioni condotte e portate a termine dall'uomo stesso, in modo tragico, eroico, spaventoso? E in mezzo a quel totale disordine, ognuno osservava i fatti con uno sguardo unico e diverso da tutti gli altri; quello degli intellettuali, poi, godeva della peculiarità di riuscire a mantenere un legame spirituale con la realtà pur circondandosi della distaccata aurea della cultura. Si parlava di uomini con una voce impastata di concreta consapevolezza: era il neorealismo, o, come sarebbe più corretto dire, erano tanti neorealismi, tante tendenze che confluivano in una sola. Elio Vittorini rappresentò, in quegli anni, l'emblema della cultura che traeva la propria potenza da un'incessante attività politica: mantenne i piedi su entrambi i terreni, ma lasciando sempre il pensiero libero di approdare a nuove riflessioni, critiche e formative. Pubblicò Uomini e no nel 1945, a Milano, applicando una micidiale scarnificazione al racconto di due coraggiose imprese della Resistenza: l'influsso della letteratura e del cinema americani si fanno sentire nella velocità con cui scorrono i diversi quadri, scanditi da dialoghi fitti che raramente concedono pause narrative.
La vicenda è ambientata nell'inverno del '44, a Milano: le macerie vengono illuminate dal sole più mite degli ultimi anni (quelle stesse macerie così desolanti per Salvatore Quasimodo: " Invano cerchi tra la polvere, povera mano, la città è morta".), mentre il GAP comandato da Enne 2 si prepara a colpire il nemico tedesco. Sono tanti i personaggi che ruotano attorno alla figura centrale del protagonista, ma il tono e l'andamento del linguaggio sono sempre costanti, con frequenti ripetizioni di enunciati, come in una cantilena che allontana gli uomini dal sangue e dalla rovina che si stanno costruendo con le loro stesse mani. E sono riflessioni sulla portata stessa di azioni che richiedono, per sussistere, un qualche significato: " Bisogna che gli uomini siano felici. Che senso avrebbe il nostro lavoro se gli uomini non potessero essere felici?". Sono tutti ragazzi umili e semplici, anche quelli con le basi culturali più solide, a realizzare due grandi colpi: l'attentato al Tribunale, che causa la morte di alcuni soldati tedeschi, e, nel finale, l'attacco diretto a Cane Nero, entità minacciosa e crudele. Ma c'è un intreccio ben più complesso che si insinua, a volte delicatamente, altre volte con irruenza, nel susseguirsi delle azioni militari: la storia decennale dell'amore impossibile fra Enne 2 e una donna sposata, Berta. Vivono nel tormento di una passione irrinunciabile, che si comporrà sempre della definitezza dell'indefinito, dell'incompiutezza spirituale di un totale abbandono corporale. Vittorini dedica numerose riflessioni a questo sentimento sofferto, accarezzando con affetto paterno quell'uomo che lui stesso ha creato donandogli una parte non trascurabile di sé: " Io so che cosa vuol dire un uomo senza una donna, credere in una, essere di una, eppure non averla, passare anche anni senza che tu sia uomo con una donna, e allora prenderne una che non è la tua ed ecco avere, in una camera d'albergo avere, invece dell'amore, il suo deserto ". Sono pagine in corsivo separate da tutto il resto, pagine in cui l'autore lascia naufragare la narrazione in un lirismo malinconico, sospendendo la successione temporale degli eventi per camminare sopra un soffice manto fatto di ricordi e immaginazione; istituisce formalmente un dialogo con Enne 2, ma non fa altro che parlare a una parte intima e delicata della propria anima.
L'intellettuale riflette, l'uomo agisce; l'uomo intellettuale rinuncia a porre delle barriere quando ritiene impossibile separare i buoni dai cattivi: " Pensavamo che valesse la pena versare il sangue di mille di noi perché un cane fascista vi affogasse dentro". Dove sta la differenza, quando il sangue in cui sguazzare si confonde e le morti accumulate assumono la sinistra sembianza di un sacrificio dovuto? L'orrore pervade i sensi, quando si osservano dei corpi innocenti straziati da una violenta rappresaglia nazista: Berta subisce un crollo nervoso e si chiede se essi siano morti anche per lei, come se il senso esistenziale di ogni suo simile dovesse confluire nel significato di quelle morti: "[...] questo era il modo migliore di colpire l'uomo. Colpirlo dove l'uomo era più debole, dove aveva l'infanzia, dove aveva la vecchiaia, dove aveva la costola staccata e il cuore scoperto: dov'era più uomo. Chi aveva colpito voleva essere il lupo, far paura all'uomo". Persino la storia di Berta ed Enne 2 può acquistare un senso in quelle morti, attraverso una perdizione liberatoria. E presente in tutto questo concentrato di umanità, è l'animale: persino i cani dei tedeschi prendono la parola, e Kaptän Blut risponde "Uh!" alle parole del partigiano Figlio-di-Dio, che, come Cristo chiedeva ai futuri discepoli di seguirlo, così egli tenta di persuadere la bestia a "cambiare mestiere", incominciare una nuova vita in un posto lontano. Vittorini risente dell'ermetismo, quando mette in campo metafore così dense, ma poi tutto diventa violento espressionismo quando la crudeltà guarda l'uomo negli occhi e la pietà è solo più una debolezza svolazzante. Com'è possibile trovare la forza di cercare un senso, quando un uomo viene letteralmente mangiato vivo? " Blut, il cane, sa che non può più seguire Figlio-di-Dio dopo quello che ha fatto. Non potrà più essere un cane dell'uomo, amico dell'uomo...". E Vittorini si immagina, alla stregua del cane, un Hitler guaente, divorato dal rimorso del disumano pasto appena compiuto. È facile riconoscere l'uomo in mezzo a ciò che potrebbe privarlo della sua stessa umanità: la fame, il freddo, la malattia, la violenza. Ma l'occhio dell'intellettuale analizza anche l'altra parte, quella di chi reca danno. Si fa molte domande, l'autore, ma restano tutte aperte: " E chi ha offeso che cos'è? Mai pensiamo che anche lui sia l'uomo. Che cosa può essere d'altro? Davvero il lupo? ". Alla fine del romanzo, il testimone passa a un operaio, che dovrà superare il rito d'iniziazione uccidendo un tedesco. Il pensiero cede il posto alla lotta: è la storia di tutti gli uomini.