La Corte d’Appello di Roma segna una svolta storica nell’indagine sulle morti collegate all’uso di uranio impoverito con una sentenza che sancisce un risarcimento record di quasi 1 milione e 300 mila euro che il ministero della Difesa dovrà pagare ai familiari del militare morto per un tumore contratto dopo aver partecipato ad una missione in Kosovo tra il 2002 e il 2003.
La prima sezione civile della Corte d’Appello respinge il ricorso della Difesa e conferma i sospetti che da anni girano intorno alla questione delle patologie riconducibili ai munizionamenti contenenti uranio impoverito nei teatri operativi dei Balcani, dell’Iraq, ma anche nei poligoni di addestramento come ad esempio quello di Salto di Quirra in Sardegna: “esiste, in termini di inequivoca certezza, un nesso di causalità tra l’esposizione alle polveri di uranio impoverito e la patologia tumorale”. Non solo, si individua una precisa responsabilità nei vertici delle Forze Armate per omissione dei fattori di rischio nei confronti dei soldati e per non aver utilizzato le adeguate misure di prevenzione segnalate dalla Nato fin dal 1984.
L’avvocato dei familiari del sottufficiale deceduto, Angelo Fiore Tartaglia, spiega infatti che fino alla decisione della corte d’Appello, anche sulla base delle conclusioni delle varie commissioni parlamentari che si sono occupate dei casi di tumore da esposizione all’uranio impoverito che hanno coinvolto diversi militari italiani, il nesso di causalità si limitava alla probabilità, benché questo ultimamente sia stato ritenuto di per se sufficiente. Questa sentenza stabilisce, invece, il principio dell’inequivoca certezza, la causa della malattia contratta dal militare è proprio l’esposizione a questa sostanza.
Sentenza che assume un peso specifico importantissimo alla luce dell’apertura di una nuova commissione di inchiesta proprio sulla morte di militari e civili riconducibile all’uso di uranio impoverito e altri agenti patogeni.
Secondo i giudici di primo e di secondo grado, l’uso di proiettili all’uranio impoverito, a lungo negato dalle forze politiche, è stato confermato sia dal memorandum del Department of the Army, Office of Surgeon General del 1993, e dalla cosiddetta Commissione Menapace, approvata dal Senato nel 2006. Risulta perciò evidente come i vertici delle Forze Armate sapevano, o dovevano sapere, che tipo di armamenti venissero utilizzati durante le missioni e, per deduzione logica, durante gli addestramenti per quelle missioni. Stando così le cose, chi avrebbe dovuto tutelare l’incolumità dei militari ha omesso colposamente il livello di rischio e le relative misure di sicurezza. Omissione che per la prima vede nel ministero della Difesa un colpevole preciso, chiamato a rispondere dei propri errori.