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USA-Cina: competizione o collaborazione?

Creato il 27 maggio 2013 da Basil7

Qualche giorno fa la Casa Bianca ha annunciato che il 7 e 8 giugno Barack Obama incontrerà Xi Jinping in California per «rivedere i progressi e le sfide nelle relazioni tra Stati Uniti e Cina negli ultimi quattro anni e per discutere come rafforzare la cooperazione, gestendo in modo costruttivo le differenze». In sostanza, si parlerà di quanto il consigliere alla Sicurezza nazionale di Obama, Thomas E. Donilon, definì «cooperazione competitiva».

Da un punto di vista geopolitico, la partita tra Washington e Pechino è tutta nell’Oceano Pacifico, che, prima o poi, potrebbe diventare il campo di scontro aperto – non necessariamente militare – tra le due potenze. Eppure, ad avere maggiori perplessità sulla condotta da tenersi nell’area dovrebbero essere gli Stati Uniti, la cui strategia del “pivot to Asia”, ossia l’insieme di politiche per il rafforzamento dei rapporti economico-militari tra Washington e i Paesi asiatici e la per la creazione di un ponte solido trans-pacifico.

Di fatto si tratta di un’opera di containment nei confronti della Cina, seppur condotta talvolta con un’ambiguità che nel lungo periodo potrebbe essere controproducente. Obama ha voluto imprimere in questo senso – alla luce di una politica estera che resta comunque opaca – un cambio di rotta rispetto all’Amministrazione Bush, concentrata specificamente sul Vicino e Medio Oriente e caratterizzata dalla trasversalità della “Global War on Terror”. L’attuale Presidente, invece, ha spostato l’attenzione sull’Oceano Pacifico, vale a dire sull’area che effettivamente gli statunitensi hanno posto in secondo piano per alcuni anni. Tuttavia, è legittimo chiedersi se questo tentativo di contenimento non asfissiante della Cina davvero possa produrre effettivi positivi per gli USA e, in modo più ampio, per le relazioni internazionali. Pechino, infatti, non è Mosca negli anni Cinquanta e assolutamente non mira alla supremazia militare mondiale. A parer mio, i cinesi non hanno ancora deciso cosa vorrebbero essere “da grandi” e, in ogni caso, i loro progetti di maggiore pervasività politica sono incentrati sul medio periodo (ancora la loro flotta da guerra non è pronta per un conflitto in acque oceaniche).

Per di più, la Repubblica Popolare si è limitata a mostrare la forza solo nelle regioni di stretta prossimità (risorse nel Mar Cinese, Isole Senkaku/Diaoyutai), preferendo altrove la penetrazione tramite i traffici commerciali, gli snodi logistici e le piazze finanziare: i cinesi sono consapevoli che la loro produzione è connessa al consumo nel resto del mondo e che la validità dell’accumulo di debito pubblico straniero ha senso finché i Paesi debitori sono capaci di sostenere il costo degli interessi. Tutto ciò non significa che la Cina sia pacifica e docile, anzi. Una mera politica di containment, però, potrebbe essere controproducente, poiché spingerebbe Pechino a mantenere la propria condotta di sostanziale estraneità dalla maggior parte delle crisi globali, oppure a rispondere all’accerchiamento con l’inasprimento dei rapporti di vicinato. Per esempio, lo spostamento di 2500 marines degli USA in Australia significa poco di per sé, poiché il loro numero sarebbe insufficiente per modificare sensibilmente gli equilibri di un eventuale scontro, ma sufficiente per favorire la reciproca diffidenza. Gli attori del Sudest asiatico auspicano una certa presenza militare statunitense per bilanciare l’influenza cinese, ma è vero anche che la posizione di Pechino nei confronti della Corea del Nord durante la recente crisi è stata molto più oculata di quella di Washington: l’unico modo per evitare colpi di testa di Pyongyang è che la Repubblica Popolare imponga la calma.

Ormai, anche la Cina dovrebbe cominciare ad assumersi le proprie responsabilità di potenza globale, collaborando attivamente ai lavori della comunità internazionale, magari cominciando dalla razionalizzazione del traffico marittimo nell’Oceano Pacifico, un argomento che coinvolgerebbe molti tra i principali attori internazionali. Oggettivamente, al momento sarebbe pressoché impensabile andare oltre, vale a dire ampliare le negoziazioni alla condivisione delle risorse energetiche sottomarine – si potrebbe provare, però, con progetti di ricerca – o alla creazione di una zona di libero scambio trans-pacifico, la quale, secondo me, comprometterebbe davvero i rapporti. Nonostante la presenza economico-militare statunitense sia fondamentale e positiva, il solo containment non è il miglior modo di affrontare la Cina, soprattutto perché – la Storia lo insegna – alla percezione della minaccia si risponde con la compattazione delle diversità, mentre tramite l’apertura si ha maggiore probabilità di veder emergere ambiguità e contraddizioni che potrebbero essere l’anticamera della svolta.

Beniamino Franceschini

USA-Cina: competizione o collaborazione?

La foto contenuta nell’articolo ritrae l’accoglienza al cacciatorpediniere cinese “Qingdao” a Pearl Harbor nel 2006. ©U.S. Navy photo by Mass Communication Specialist 3rd Class Ben A. Gonzales.



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