Mario Margiocco sul Sole 24ore di oggi (22.04.2012), a proposito delle imminenti elezioni presidenziali negli Stati Uniti, scrive:
<<La sfida repubblicana è in nome del mercato contro lo “statalismo” presunto di Obama, come se l’America di oggi, sorretta da proporzioni mai viste di credito pubblico, non avesse ormai la capitale finanziaria a Washington e non più a Wall Street.>>
L’autore dell’articolo ricorda che le due visione che fanno capo ai grandi partiti Usa si sono veramente scontrate, negli ultimi 60 anni, solo un paio di volte. Nel 1952 Adlai Stevenson e il repubblicano Dwight Eisenhower poterono tratteggiare la loro visione dell’America, più in politica estera che interna, poiché i repubblicani si guardarono bene dallo sfidare il New Deal; nel 2008, con Obama e McCain, non legati a passati governi, ci sarebbe potuto essere un autentico scontro tra due visioni, la sollecitudine sociale contro l’efficienza e la forza del mercato, se la grande crisi finanziaria non fosse arrivata a 45 giorni dal voto a scompigliare tutte le carte. Per il resto, scrive Margiocco, le altre
<<15 competizioni elettorali, dal 1944 in poi, sono state invece dei referendum sul presidente in carica, o sul suo erede diretto>>.
In realtà noi possiamo aggiungere che comunque la vera divaricazione, di tipo strategico, tra repubblicani e democratici, si è sempre manifestata soltanto in politica estera, perché momento per momento – nelle varie congiunture economico-sociali globali che hanno sempre avuto gli Stati Uniti come “centro” – le forze politiche, industriali e militari hanno sempre saputo trovare un compromesso che costringeva i due partiti a trovare un accordo nelle scelte da portare avanti riguardo alla politica, economica e sociale, interna. Per quanto riguarda la sfida attuale, tra Romney e Obama, è evidente che le criticità prodotte dalla nuova Grande Crisi, e in particolare il tasso di disoccupazione, giocheranno un ruolo decisivo per far pendere la bilancia a favore dell’uno o dell’altro. Così continua perciò il giornalista:
<<Obama è per una fair America che salva la classe media, mai così in difficoltà come negli ultimi quattro anni. Romney per il mercato, che non ha defaillance, dice, e prospera con le sue distruzioni creative, di cui Romney come campione del private equità è un maestro>>.
Ma quello che agli osservatori più avveduti appare evidente, mentre nei comizi non se ne parla, è il fatto che l’iperfinanza e la crisi hanno reso anche gli Usa – il paese che da un secolo guida l’economia mondiale – l’ombra di se stessa, con i mercati finanziari e quindi anche la stessa economia “reale” diventati Washington-dipendenti. Margiocco rileva a questo proposito che già nei dati di un anno fa
<<appariva chiaro il sorpasso della finanza pubblica su quella privata nel finanziamento dei consumi. Linee di credito emesse e garantite da Washington salivano al primo posto nel finanziamento di tutti i mutui in essere e del credito al consumo, un netto rovesciamento rispetto al 2006, quando ogni dollaro con dietro Washington ne fronteggiava due del libero mercato>>.
Le statistiche attuali dicono, infatti, come sia ormai Washington con i suoi finanziamenti e assicurazioni su crediti per mutui e famiglie, agricoltura, imprese e studenti il primo banchiere degli Stati Uniti, 2.700 miliardi a fine 2011, più del portafoglio della prima banca privata, JPMorgan. Per concludere il panorama il noto giornalista economico scrive:
<<E questo senza contare le garanzie sulle megafinanziarie immobiliari Fannie e Freddie, sul sistema delle Federal Home Loan Banks(1) e altri impegni assunti dall’esecutivo (extra Federal Reserve quindi) in seguito alla crisi. Il tutto porterebbe lo zio Sam banchiere a circa 9mila miliardi di esposizione>>.
Questa situazione della finanza pubblica americana ha determinato un ulteriore innalzamento del rapporto debito pubblico / Pil che ha praticamente raggiunto il livello dell’Italia e del Giappone. D’altra parte – contrariamente a quello che continuano a ripetere quelli che sono ossessionati dal cosiddetto “signoraggio” – la possibilità degli Usa di “scherzare” con il dollaro senza essere “terrorizzati” dalle conseguenze, nasce dalla supremazia politico-militare di quella che è ancora l’unica superpotenza mondiale e non deriva certo da un presunta regolamentazione monetaria internazionale che attribuirebbe alla valuta americana una specie di virtù “soprannaturale”, sempre beninteso di natura strettamente economico-finanziaria.
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Da un articolo di Paolo Panerai apparso su ItaliaOggi otto giorni fa si ricava l’impressionante dato che le “manovre” economiche, imposte dai governi italiani dal 2010 al 2012, hanno raggiunto l’ammontare di 232 miliardi di euro suddiviso in un 72% di maggiori tasse e solo in un 28% da riduzioni della spesa pubblica. Gli altri paesi europei, ricorda Panerai, dalla Gran Bretagna alla Spagna, dalla Grecia al Portogallo e all’Irlanda hanno effettuato rialzi delle tasse, in proporzione, decisamente minori. Tra l’altro l’Italia è l’unico paese che si è posto l’assurdo obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013. Anche con la firma del Fiscal compact difatti la Spagna, che ha per certi versi problemi simili ai nostri, prevede di ridurre il deficit al 3% del Pil alla fine dello stesso anno. Adesso si comincia a parlare – ma le stime di Bankitalia e del Fmi differiscono parecchio – di una possibile “ripresina” verso la fine dell’anno ma se – dopo aver aumentato la pressione fiscale a livelli parossistici – si vorrà davvero portare avanti il demenziale obiettivo del pareggio di bilancio nel 2013 attraverso lo spending review , caldeggiato anche da Panerai, il rischio di un “disastro” è veramente molto alto. Gli enti locali sono ormai allo stremo in tutta Italia con un conseguente degrado del territorio e un quasi azzeramento di molti servizi ai cittadini; al sud le spese per il personale sono ancora abbastanza alte ma un autentico taglio in queste zone porterebbe ad un autentico sconquasso sociale. E’ poi evidente che, a causa delle resistenze e del potere della classe politica e della alta burocrazia “centrale”, si dovrebbe andare al risparmio in maniera consistente anche nella quota degli investimenti pubblici comprese quelle forme di credito che, per esempio, negli stati Uniti, come abbiamo visto sopra, permettono di attenuare le conseguenze della crisi del sistema finanziario privato. Mi sembra quindi che le prospettive si siano fatte, a dir poco, inquietanti; non solo ci troviamo ridotti a colonia dei “padroni” Usa e dei loro luogotenenti tedeschi ma il governo di “tecnici” totalmente incapaci di capire che cosa stanno facendo sta portando il nostro paese sull’orlo di un baratro da cui potremmo non uscire più.
(1) <<Il Federal Home Loan Bank System nasce nel luglio del 1932 per promuovere gli acquisti di case attraverso la costituzione di una liquidity facility per le savings & loan (enti eroganti finanziamenti per la casa). Il sistema era costituito da 12 Federal Home Loan Bank (la forma è quella di istituzioni di carattere privato) più il Federal Home Loan Board avente sede a Washington. Nel 2008, la responsabilità della supervisione, che ha subito diverse modifiche nel tempo, è passata alla Federal Housing Finance Agency, che sovrintende anche Freddie Mac e Fannie Mae>>Da I sistemi di finanziamento dell’edilizia abitativa: modelli, esperienze e innovazioni -Luca Papi – FrancoAngeli, 2001.
Mauro T. 22.04.2012