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Usque tandem, Confindustria?

Creato il 29 gennaio 2016 da Albertocapece

catilinaAnna Lombroso per il Simplicissimus

In occasione della tradizionale pubblicazione della graduatoria degli indici di corruzione presente nei paesi del mondo, ci fanno sapere che senza, senza cioè malaffare, voto di scambio, violazione delle norme che regolano la libera concorrenza, saremmo più ricchi dei tedeschi.

A denunciarlo è il Sole 24 ore, il quotidiano di Confindustria, che, c’è da sospettare, vorrebbe contribuire così ad  accreditare la pretesa d’innocenza della categoria dei volenterosi, integerrimi  ma tartassati imprenditori costretti – obtorto collo – a cedere a proterve e avvelenate pressioni di politici e amministratori per poter lavorare, per pagare salari e collaborare con abnegazione e poco profitto alla crescita del paese, quella categoria della quale, ricordiamo, fanno parte le cordate del Mose, dell’Expo, della Tav , delle Grandi Opere insomma, ma anche delle piccole, quelle dei pescecani su scala, delle operette immorali dei comuni minori, non meno permeabili a intrallazzo e connotate da una inutilità che diventa danno erariale, ambientale e morale, quanto di quelli maggiori.

Ma non è certo estrano anche l’intento di dare della corruzione quell’interpretazione parziale, unicamente giudiziaria e penale, dei fenomeni legati al rapporto tra economia e decisori, di quella fattispecie criminosa che porta alla violazione delle regole in materia di appalti pubblici e privati, alla condotta propria del pubblico ufficiale che riceve una tangente o altri benefici che non gli sono dovuti, creando  un danno pecuniario diretto o indiretto.  Per combattere la quale basta istituire un’Autorità torva e spaventosa quanto uno spaventapasseri che dovrebbe tenere lontani corvi e avvoltoi e risarcire risparmiatori beffati.

E così si “stralciano” altri tipi di corruzione, quella demoralizzazione che significa a un tempo perdita di valori etici e insieme disillusione, avvilimento, scoramento come se fosse ormai inane reagire all’impotenza che deriva dalla tremenda e implacabile considerazione che se la via al potere non può essere virtuosa, non lo è più nemmeno la cittadinanza, il viver civile, contaminato da clientelismo, favoritismo, familismo, intesi ormai come legittima difesa da soprusi e sopraffazioni, epidemici, incrementati ineluttabilmente da perdita di beni e certezze, connessi strettamente alla rinuncia a diritti e conquiste e dunque alla dignità che farebbe vergognare di attitudini e comportamenti meschini, egoistici, asociali.

Meglio del Sole 24 ore aveva definito questa “patologia”  Sallustio che intorno al  40 a.C. descrisse la progressiva decadenza della civitas¸ per mettere in guardia contemporanei e posteri dalle insidie morali che il potere comporta e come possano diffondersi  come un contagio: “… quando la città aumentò di uomini e di territori e si affinò nei costumi, sì che parve aver raggiunto un certo livello di prosperità e di potenza, come avviene a questo mondo, l’opulenza fu foriera d’invidia ….  La sete di denaro e di potere aumentò e con essa, si può dire, divamparono tutti i mali. Fu la cupidigia a spazzar via la buona fede, la rettitudine e tutte le norme del vivere onesto, indusse gli uomini all’arroganza, alla crudeltà, alla negligenza degli dèi, alla convinzione che non c’è cosa che non sia in vendita”.

Come al solito la storia, la cui lezione è inascoltata, si avvita come una spirale intorno all’eterno perno dello sfruttamento, dell’avidità insaziabile, della brama di accumulazione e dopo più di duemila anni quelle parole sono tremendamente attuali, così oggi Catilina sarebbe un inaffidabile demagogo populista, Sallustio un molesto moralista, noi che ne scriviamo fastidiosi disfattisti. Perché è sempre più difficile pensare a come sottrarsi a questo obbligo immorale: l’assenza cronica di visioni globali della storia è il più grave colpo inflitto dall’umore postmoderno alla contemporaneità, che ci costringe a rimuovere dal nostro orizzonte visioni alternative, a accettare come inevitabile la guerra che è stata mossa dai pochi che hanno molto e sempre di più, contro chi ha poco e sempre meno, manifestazione imprescindibile della “modernizzazione”, delle sue forme di sviluppo e dei suoi aspetti propulsivi, che giustificherebbero la cessione di diritti, di responsabilità, di speranza…  E di democrazia, cancellata proprio da quella forma di corruzione che in sostituzione della partecipazione propone una scatola da prestigiatore, un esile guscio di rappresentanza popolare con un interno oscuro e opaco, mescolato, come una calce su passato e futuro, dalla pala delle basse manovre e dei gretti interessi delle segreterie di partito, o delle segreterie senza neppure un partito, che – non è trascurabile – prevede il reinvestimento privato e personale dei proventi opachi e malandrini per acquistare consenso e che promuove il “dirottamento” di quote crescenti di bilancio verso i settori nei quali sono attesi maggiori profitti illeciti, come quello delle grandi opere, forniture militari, anche grazie a emergenze costruite fittiziamente. Democrazia, con la quale l’Unione Europea ha dimostrato di essere incompatibile, irriformabile com’è, avvitata sulle sue regole e sui suoi parametri, sui patti infami che fa firmare col nostro sangue a stati ormai depauperati di sovranità, costretti a pratiche lesive dell’umanità, ma anche di ipotesi di sviluppo equilibrato, taglieggiati e castigati, motore di insanabili disuguaglianze che trova estemporanei terreni unitari nella guerra interna ed esterna, nella repressione di sussulti di autodeterminazione, che tollera e favorisce la crescita di partiti neonazisti, che si presta a consolidare l’egemonia finanziaria.

Eh si nuocciono i passaggi di mazzette tra amministratori sleali e imprenditori spigliati, che non ci permetterebbero di diventare più ricchi dei tedeschi. Ma riflettiamo sui danni della fine delle produzioni decisa per convertire investimenti e risorse in profitti per l’azionariato tramite il gioco spesso maldestro del grande casinò finanziario, sugli effetti morali e sociali del sopravvento della mobilità in modo che doventi precariato e infine schiavitù, quello caldeggiato dal Jobs Act, che piace tanto a ragionieri e pensatori della Leopolda, a cominciare dal lavoro in casa, dedicato con particolare vigore alle donne, in modo che senza difese, senza socialità, senza coesione, senza garanzie sindacali, tornino indietro a un dinamico e contemporaneo lavoro nero, che viene accreditato come appagante e “libero”: far guanti, maglie, tomaie, meglio di notte, come è avvenuto e avviene o – ma non è granché meglio – a fare le “sviluppatrici”, le programmatrici, le venditrici, le ”manager” informatiche tra le mura domestiche, non finite di pagare, tra una lavatrice, un colpo di ferro da stiro, il tuffo in padella dei quattro salti”, il cambio di pannolino.

Il fatto è che la forma più sottile di corruzione, quella insidiosa, ormai ce l’abbiamo dentro: ci ha spiumato le ali, ci convince che è necessario, anzi doveroso, accettare sopraffazione e sfruttamento come forma di pentimento per aver sognato riscatto, certezze, libertà, ci persuade che il nemico non è chi ci ha ridotto in servitù, ma l’arrivo di altri schiavi, ancora più umiliati e disperati di noi, ci fa credere che sia giusto respingere loro anziché rifiutare chi ci ha portato a questo, oggetto di mimesi, ammirazione, imitazione.

Sarebbe ora di far uscire il Catilina che teniamo occultato in noi.

 

 

 


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