Di SONIA CAPOROSSI *
Studiare dal punto di vista filosofico la vexata quaestio dell’utero in affitto pone inevitabilmente di fronte a un’angusta scoperta molto simile a quella dell’acqua calda, ovvero che la questione è mal posta, in quanto si fonda su un presunto diritto ad avere figli di origine naturale che non esiste da nessuna parte. E non esiste, beninteso, in termini di storia della filosofia politica e del diritto, né nel giusnaturalismo classico, né all’interno della Dichiarazione universale dei Diritti dell’Uomo, dove lo si cercherebbe invano, essendovi presente invece la menzione della tutela della “famiglia naturale” (sic) e dell’infanzia in tutte le sue prerogative sì, ma presupposta anapoditticamente come già data, senza far menzione di qualsivoglia diritto dei genitori ad aver prole. Insomma, nella storia del diritto ci si trova davanti a un buco enorme, un vuoto normativo che è sicuramente dovuto ai tempi storici e alle diverse società occorse in relazione ai medesimi.
Eppure, ragionando sulla questione, si capisce che, al di là del mero fattore storiografico, un presunto “diritto ad avere figli” non esiste a priori, e non esiste per le coppie eterosessuali in primis, in quanto è frutto di un’errata interpretazione del costruttivismo giuridico, in base al quale il diritto si assume come “pratica sociale di carattere interpretativo” (secondo la definizione di Ronald Dworkin) ma proprio in quanto tale, siccome legge e sua ermeneusi interagiscono costantemente, in base al nietzscheano “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, il principio di determinazione della cosa, ovvero del verumfactum legato al casus giuridico di volta in volta occorso in termini di Praxis, Wirklichkeit eccetera, di presenza imprescindibile in questioni di diritto, dilegua.
Questo non significa certo che il diritto, per essere preso in considerazione come valido socialmente, debba necessariamente fondarsi solo ed esclusivamente su basi naturali; altrimenti le norme non coprirebbero davvero tutti i casi, bensì andrebbero ad occuparsi solamente dei casi legati ai bisogni primari di origine appuntonaturale, mentre nella legislazione verrebbero lasciati scoperti, di volta in volta, i vari e multiformi casi in fieri non pertinenti ai semplici bisogni naturali, ma anche ai desideri, i quali danno luogo a norme e comportamenti di origine evidentemente sovrastrutturale, cioèculturale in senso rousseauiano. Certo, si diceva, il diritto questi casi deve coprirli tutti, nessuno escluso; ma allora si rende evidente il cortocircuito logico ed ermeneutico intrinseco alla cosa: avere figli passa per un diritto, quando invece è un desiderio. Così, si attua un tacito scambio, sul piano politico, etico e sociale, tra la necessità di coprire con la legge un desiderio e la trasformazione di un desiderio in un diritto.
Al culmine del ragionamento, si potrebbe concludere, quindi, che se avere figli non è un diritto, probabilmente è un lusso. E allora si spiega tutto, soprattutto l’utero in affitto, oggetto di scontri e dibattiti in questi giorni a causa del casus vendoliano. Qui il problema si interseca col tema della genitorialità e con la necessaria analisi del suo intimo significato all’interno della sociosfera attuale.
Certo, essere genitori è un dovere, una volta che i figli semplicemente si hanno, si sono avuti. La genitorialità è quindi un’assunzione di responsabilità in forma di dovere solo se la responsabilità, il genitore di turno, se la assuma rimanendo consapevole di stare agendo in virtù del perseguimento di un lusso, quello, nella società di oggi, di avere appunto un figlio. Nel Medioevo, ad esempio, la situazione era diversa: la piramide delle età corrispondeva in qualche modo alle necessità imposte dalla piramide sociale del potere, tale che il servo della gleba o anche il semplice massaro erano in qualche modo obbligati a fare figli affinché questi ultimi li aiutassero nel lavoro dei campi, in un regime di autoconsumo feudale e di bannalità che oggi sarebbe fuori luogo voler ritrovare persino nei paesi dall’Indice di Sviluppo Umano meno felice del mondo. Parimenti, l’alta natalità dei paesi anche occidentali almeno fino al primo quarantennio del Novecento riguardava prevalentemente lo strato etimologicamente proletario della popolazione, molto meno la borghesia o la decadente e decaduta nobiltà, e sempre per motivazioni legate alla prevalenza del settore primario in zone come il Sud.
Al giorno d’oggi invece, in una società in cui, a sentire Alberto Moravia, nell’Occidente presuntivamente civilizzato “non c’è che la borghesia”, la stessa consapevolezza che trattasi di un lusso vige per la tutela degli animali domestici. Ci facciamo un cane da compagnia, ma poi abbiamo il dovere di curarlo: è il lusso che induce il dovere, non il dovere il diritto. L’ethos, sia nel caso dell’avere prole sia nel caso del possesso degli animali domestici, subentra a posteriori, non esiste a priori: il dovere consegue all’atto, non viceversa.
Insomma, un’indagine filosofica approfondita agisce da catalizzatrice del dibattito nella misura in cui, tramite essa, ci si rende conto che se avere figli non è un diritto, cade tutto il corollario della pretesa legislativa. Si va all’origine della chose, riflettendo sulle medesime fonti su cui si basa la pretesa del diritto attuale, finché non ci si accorge che qui il casus è invertito, cioè la legge consegue all’atto, non regola generalia.
Posto dunque che non esista nessun reale diritto alla genitorialità, bensì soltanto il desiderio di farsi genitori e di avere figli, al contrario dovremmo ammettere in quanto conseguente, con buona pace dei cattolici e degli obiettori di coscienza, la possibilità di poter rinunciare alla genitorialità in qualsiasi momento anche per le donne incinte, ma non per le puerpere. Perché a un lusso si può rinunciare, ma non finché implichi, una volta perseguito, un dovere, nella fattispecie, dopo il parto, il dovere di prendersi cura del figlio. Infatti, la volontà di abortire sarà per definizione un desiderio, e quindi in base allo stesso principio legittimamente può non permanere, fuor di metafora deleuziana, nel limbo ottativo e desiderativo, ma farsi Reälitat.
Se si studia con attenzione la giurisprudenza però, si noterà che esistono due tipologie di diritto: il diritto soggettivo e quello patrimoniale. Se avere figli (o anche non averne dopo il concepimento tramite l’aborto) rientra nel campo semantico del privilegio che si fa realtà, non rientra per questo nel diritto di natura, ma in quello patrimoniale, che è per definizione costruttivistico, facendo capo, nell’antinomia tra natura e cultura, alla semiosfera della seconda. Ecco perché, a rigor di logica, si arriva al tremebondo paradosso che la legislazione in questi casi non è nemmeno necessaria e intoccabile, giacché, in quanto va a coprire desideri che riguardano la semiosfera culturale, lascia comunque il tempo che trova, essendo i desideri cangianti e soggetti al tempo e alle modificazioni sociali per definizione. Ciò significa, fuor di metafora, che avere figli non è un vero e proprio diritto perché non si fonda sull’inalienabilità. L’errore, per riassumere, consiste dunque nel confondere sullo stesso piano i desideri e i diritti.
Così, si arriva alla conclusione che se la genitorialità in realtà non è un diritto, bensì il desiderio di entrare in possesso di un lusso, allora nella dimensione di generale mercificazione del corpo femminile che ciò comporta, l’utero in affitto altra cosa non è che una forma vera e propria di prostituzione. Eppure, attenzione: questa prospettiva è affatto scevra da qualsivoglia impostazione moralistica. Lungi da questa argomentazione, insomma, il voler concludere matematicamente l’equivalenza prostituzione=sfruttamento. L’universo della prostituzione maschile e femminile è talmente ricco e variegato da comprendere anche casi in cui lo sfruttamento di una fascia sociale debole non si dia affatto. Bisogna piuttosto saper dare il giusto nome alle cose senza edulcorarle di sentimentalismo (questo sì!) moralistico: se si tratta di prostituzione, non possiamo chiamarloamore, né quando si compra una prestazione sessuale, né quando si compra una prestazione uterina.
È altresì vero che, nel caso dell’utero in affitto, le donne che si prestano all’opera in effetti sono (spesso, ma non sempre) le più svantaggiate socialmente ed economicamente, anche se non definirei la situazione in termini veteromarxisti utilizzando parole abusate come “classismo”, lessema che ha perso senso da un bel po’ di tempo, sempre per il dettato moraviano di cui s’è detto. È anche vero, peraltro, che esistono casi di maternità surrogata in cui l’utero non viene venduto o comprato, bensì donato: casi, ad esempio, di madri che prestano il proprio utero a figlie che non potrebbero altrimenti dare loro la gioia della nipotanza; ma qui la situazione a ben vedere non si complica, al limite si semplifica.
Ad ogni modo, abbiamo un pianeta in gravi condizioni di sovrappopolazione, e chi invece di adottare bambini rimasti orfani li ordina su commissione a fabbriche uterine depersonalizzate, spesso poi è la medesima genìa di persone che d’altro canto stigmatizza l’eugenetica nazista.
Allora, giunti a questo punto ci si chiederà: che cosa pensare della stepchild adoption e della Cirinnà? A riguardo mi sono espressa chiaramente da giorni, gongolando per il risultato parziale soprattutto circa la non obbligatorietà della fedeltà coniugale, che è leibnizianamente il migliore dei mondi possibili. Cosa di cui non sembrano rendersi conto coloro che vorrebbero azzerare quarant’anni di lotte femministe coi loro commenti di plauso alla surrogacy, riversatisi in questi giorni sui social network e sulle pagine dei giornali, proprio in seguito al dibattito sorto per il conseguimento dell’omogenitorialità di Nichi Vendola tramite una madre surrogata. Beninteso, non che le femministe siano da difendere a spada tratta nelle loro vetuste pretese separatiste; né tantomeno io voglio difendere alcuna minoranza, mi limito bensì a rinvenire contradictiones in terminis in chi lo fa. Ho cercato finora di focalizzare appunto la contraddizione di chi si espone per tutelare un’eterogenea e complessa categoria sociale, quella LGBT (a cui peraltro io appartengo felicemente), con tutto il suo retroterra storico e culturale, di contro alla dimenticanza della necessità di tutelare anche la categoria (pre)istorica e naturale per eccellenza, quella femminile in quanto latrice di maternità.
Come si evince, la presente analisi poco ha da spartire con qualsivoglia prurito omofobico, a maggior ragione in virtù del fatto che chi la esprime è un membro della minoranza omosessuale che rappresenta e porta in campo, con la sua stessa esistenza, una piccola e personale lotta quotidiana a favore della tolleranza. Il punto, piuttosto, è rendersi conto che possiamo definire radical chic (fatti salvi coloro che si offenderanno per la nota definizione coniata da Tom Wolfe nel 1970) chi si batte per i “diritti” di una categoria vilipesa pensando per questo di essere progressista, mentre produce, al contrario, il danno di un’altra categoria vilipesa parimenti, se non di più.
Sia ben chiaro, però, che l’utero in affitto non è minimamente equiparabile alla stepchild adoption: sarebbe sufficiente una lettura della proposta legislativa per operare un degno e adeguato confronto e cogliere le enormi differenze. Eppure, questo non è chiaro a tutti, e non solo ai detrattori, ma paradossalmente anche ai cosiddetti progressisti che avallano le due proposte come fossero equivalenti. Qui la responsabilità è sì dell’ignoranza personale o della tipica malafede del radical chic, ma anche un pochino di chi, devoto del costruttivismo filosofico sinistrorso di ascendenza sessantottina, sa bene che, nietzscheanamente, non ci sono fatti, solo interpretazioni, e quindi basta condire sulle pagine dei giornali l’evento della nascita di un bel bimbo di nome Tobia per il tramite di un adeguato politichese condito da buoni sentimenti, per ottenere il massimo stretching concettuale possibile.
In definitiva, anche questo comportamento possiede, a ben vedere, un’intrinseca motivazione in altro: la matrice cattolico-liberistica della società che difende la famiglia istituzionale (altro concetto costruttivistico sorgente da un desiderio e da un lusso, che a ben vedere non si dà in natura né nel diritto né altrove) ècontraddittoriamente reduplicata dalla volontà di normalizzazione e di adeguamento alla massa della comunità LGBT, volontà di omologazione la quale si incarna in veri e propri pseudo-desideri che pertengono alla dimensione baudrillardiana del pubblicitario: matrimonio, figli e quant’altro. Insomma, in un cosmo occidentale in cui “non c’è che la borghesia”, anche la comunità LGBT, cari miei, si sta volontariamente, inesorabilmente imborghesendo.
Ma questo, va da sé, è un altro, lunghissimo, filosoficissimo discorso.
(* Articolo pubblicato su Megachip il 6 marzo 2016. )