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V come… Violenza

Da Racheleceschin

Mi oppongo alla violenza perché, quando sembra produrre il bene, è un bene temporaneo; mentre il male che fa è permanente. (Mahatma Gandhi)

violenza-identitàIl 25 Novembre è stato il giorno dedicato alla violenza sulle donne e visto l’importanza del tema ho pensato di utilizzare questo spazio per parlare di violenza in generale: cos’è, come avviene, come affrontarla.

Nelle diverse spiegazioni del termine “violenza” ritorna sempre il concetto di “atto imposto al fine di raggiungere i propri scopi”: qualcuno che per raggiungere i propri interessi o il proprio piacere (non si tratta quindi di sopravvivenza) sovrasta in modo aggressivo un essere che considera più debole, di meno valore. Significa che un essere umano impone la sua forza e prepotenza su un altro essere della stessa specie, che ritiene più debole, per raggiungere i propri scopi. In realtà c’è qualcosa di naturale in questo comportamento, qualcosa che abbiamo ereditato dall’evoluzione, ma l’essere umano è andato oltre. Gli animali non attaccano mai qualcuno della loro specie se non per difendersi/difendere la loro progenie oppure per stabilire il rango.

Cosa succede nell’essere umano?

La maggior parte delle volte neanche le vittime realizzano di subire un maltrattamento. L’aggressore cerca di fare in modo che la vittima cominci a dubitare delle sue impressioni, dei suoi ragionamenti e persino della realtà delle sue azioni, insomma dubitare di se stessa. Convincere una persona che la sua percezione della realtà, dei fatti e dei rapporti personali è sbagliata e ingannevole non è così difficile, soprattutto quando presente un legame di dipendenza affettiva. Quando la realtà è dolorosa, dura, la nostra mente attua dei meccanismo di difesa che ci permettono di negare e prendere le distanze da quella realtà, costruendoci sopra un’altra verità, più coerente e meno angosciante. Tra aggressore e vittima si innesca un meccanismo molto preciso: l’aggressore punta su una persona che ritiene più debole, gioca sul suo poco senso di amabilità e inizia a privarla della sua identità delle sue particolarità, riducendo la persona a un essere bisognoso e dipendente. Dal canto suo la vittima viene colpita laddove, probabilmente, era già presente una ferita: il suo poco senso di amabilità, il suo basso valore personale. I due innescano così un circolo vizioso a causa del quale la violenza si protrae senza che la vittima trovi la forza e la legittimazione di chiedere aiuto.

Facciamo un esempio: un bambino che ama incondizionatamente il suo papà e la sua mamma si aspetterà da loro altrettanto amore e calore. Ricevere vessazioni e colpi crea una rottura nelle sue aspettative. Il bambino però non può smettere di amare incondizionatamente quelle due persone che lo hanno messo al mondo e verso i quali prova una totale dipendenza, sarà quindi costretto a allontanare la violenza a non vederla come una cosa sbagliata. Questo bimbo svilupperà un senso di amabilità molto basso, e con tutta probabilità leggerà la violenza come qualcosa di meritato e giustificato.

Ho letto un articolo su un caso clinico che spiega uno dei modi che le vittime di maltrattamenti usano per dare un significato alla loro sofferenza: la coazione a ripetere. Chi amavo mi ha fatto del male ma io non me ne sono andato, forse fare del male è un buon modo per tenere le persone legate a me o forse, come nel caso del signor A, è l’unico modo che conosco per farmi rispettare e avere l’attenzione degli altri.

La violenza nell’adulto innesca meccanismi diversi: di solito si presenta una difficoltà a riconoscersi nel ruolo di vittima. Essere aggredito, picchiato e umilato da una persona della nostra stessa specie apre una voragine su un’esperienza potenzialmente traumatica che l’essere umano non è preparato a gestire. Un esempio di “reazione paradosso” è quella spiegata nella Sindrome di Stoccolma dove il soggetto esposto a abuso, violenza o prigionia per sopportare il dolore sviluppa un sorta di amore nei confronti del suo aggressore. Non sono rinchiuso, costretto, privato di ogni mio diritto a causa di un’altra persona ma sono io che decido di vivere così perché provo stima e amore nei confronti di  questa persona che ho conosciuto, anche se ha un modo “bizzarro” di stare con me e di amarmi. Non è la verità ma permette alla vittima di sopravvivere.

Come affrontare la violenza?

Il vero trauma consiste nell’impossibilità per il soggetto di riconoscersi in quella situazione, ma come abbiamo visto l’esperienza traumatica si innesca nella rielaborazione dell’evento. Ecco perché aiutare una vittima è un lavoro molto delicato: bisogna aiutare la persona a ritrovare il proprio senso di sè in modo da permettergli di trovare coerenza a quel vissuto come qualcosa di doloroso ma passato, qualcosa dal quale imparare a proteggersi, qualcosa che è capitato ma per il quale non abbiamo nessuna colpa.

Il succo quindi sta nel significato soggettivo che diamo a noi stessi. Il segreto sta nel credere nel valore delle nostre vite e in quello delle persone che amiamo e che sia affidano a noi. Non esiste essere umano sulla faccia della terra che non abbia valore, smettiamo di vedere quello che manca e iniziamo a fare attenzione a quanto le persone (tutte) siano ricche di risorse, di capacità, di esperienze, di competenze, di potenziale. Un essere umano, in quanto tale, è prezioso. Se diamo fiducia e importanza alle persone che ci circondano le stesse cresceranno con un senso di amabilità forte e sicuro, fiducia nelle loro capacità e nelle loro emozioni: capaci di distinguere cosa è amore e cosa è violenza.

photo credit: ♥KatB Photography♥ via photopin cc



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