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Beh, ecco cosa fa l'età.
Sì, in fondo credo che sia proprio una questione di occhi, quelli con cui guardiamo le cose.
Avevo visitato la casa museo di Salvador Dalì a Figueras, nel 1986, nella mia memorabile prima vacanza all'estero con gli amici. Da San Miniato alla Costa Brava in Renault 4 (bianca).
Dalì era ancora vivo, di lui si parlava ancora molto agli inizi degli anni '80. Ma già aveva iniziato la sua parabola finale. Nell'agosto del 1986 ricordo, ora come allora, che si trovava in ospedale, vittima dei guai del male di vivere in cui era caduto dopo la morte della moglie Gala.
Ricordo di un visita scioccante. Di un'emozione convulsa, tragica, se non sinistra. Avvolto e sopraffatto dalle sensazionali smaterializzazioni del surrealismo. Che disintegrava l'arte e la ricomponeva a suo uso e piacimento, ma anche di coloro che l'osservavano.
Ricordo una grande teatralità, schietta e roboante, magnifica ed ingannevole, che avvolgeva tutte le sale del museo. La platea come il palco, del vecchio teatro distrutto dalla guerra civile spagnola, e recuperato da Dalì per farne la propria casa, o la stanza in cui aveva realizzato la famosissima installazione che vuol rappresentare il volto di Mae West, attraversarle era come immergersi nella visionarietà dell'artista.
Fui assolutamente spiazzato dalla messa in pratica del famoso manifesto surrealista, "My Lucha", con i atteggiamenti spregiudicati e anticonvenzionali: “Contro la semplicità, e la complessità; contro la uniformità e la diversificazione; contro il collettivo e l’individuale; contro la politica, la metafisica; contro la rivoluzione, la tradizione; contro la medicina, la magia; contro lo scetticismo, la fede....”
Al bookshop acquistai la stampa che ritenni ricomprendesse tutto quello che avevo visto:
Bambino Geopoliticus, guardando la nascita di un uomo nuovo.
Oggi ho visto un altro museo. E' vero, sono trascorsi quasi trent'anni, il museo si è allargato, si è arricchito di opere e gioielli, della cripta con le spoglie dell'artista. Forse è diventato, più di allora, il museo che voleva Dalì, un blocco unico, un labirinto, un grande oggetto surrealista, un museo assolutamente teatrale, dove la gente che lo visiterà se ne andrà con la sensazione di aver fatto un sogno.
Ma di quel sogno, quella meraviglia fanatica e irritante che mi aveva ammaliato trent'anni fa, oggi non l'ho visto, se non ha tracce, coperto dal fragore luccicante di uno studiatissimo kitsch, una macchina perfetta dello stupore a orario limitato. Ad uso e consumo delle centinaia di telefonini intenti scattare immagini delle lumache in Cadillac o delle labbra di Mea West, dopo lunga e ondeggiante file per salire all'occhio di vetro in cima allo scalone, per postarle sui vari profili Facebook, per gli amici dispersi per il mondo.
Giriamo lenti tra le sale, scattiamo immagini anche io e Agnese, tante, tra opere e installazioni anche straordinarie, sempre spettacolari.
Giriamo fino a raggiungere il bookshop, dove campeggiano orologi molli, bocche scarlatte in plastica in ceramica in peluche.
Stavolta non trovo niente che raffigura quello che ho trovato dentro, e che voglio riportarmi a casa.
Quindi torno indietro, nelle sale, mi metto in posa davanti ad un'opera senza titolo, incompiuta, spiegata da una targhetta in quattro lingue, che riporta (dal castigliano): "un orologio morbido messo nel posto giusto per far morire e resuscitare un giovane Adone per eccesso di soddisfazione."
Parlando poi della visita, mi rendo conto che lei, con i suoi occhi, non ha visto il museo che ho visto io.
Dopo la visita al Museo, mi sono fatto accompagnare da mia figlia dove avevo fatto danni trent'anni fa, circa.
Ci siamo fermati a Castello d'Emporda, per visitarne il centro storico, cosa che non ricordo di aver fatto allora.
Poi ad Empuria Brava, dove trascorsi quelle memorabili vacanze. Credo di aver riconosciuto il terrazzo dell'appartamento. Il campetto dove spesso, alla sera di ritorno dal mare, sfidavamo altre squadre di ogni parte d'europa (occidentale).
A cena andiamo a Cadaques, mitico porticciolo sulle scogliere della Costa Brava, raggiungibile per una tortuosa e mirabile strada che scavalca montagne rocciose che profumano di mediterraneo.
Per mangiare tapas ad un Xiringhito sulla spiaggia.
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