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Vado a vivere a cuba - 10 -

Creato il 21 luglio 2010 da Astonvilla
VADO A VIVERE A CUBA - 10 -
Intrigo internazionale
Alle quattro del mattino comincia ad esserci un po’ di movimento nella stazione dei pullman
dell’Avana. Finalmente si apre l’accesso ai pullman e si parte. Non riesco a dormire, ma le
poltroncine sono abbastanza comode.
Poco dopo sorge il sole e il cielo è già chiaro quando ci fermiamo alla stazione di Matanzas,
ridente località che sorge in una deliziosa baia. Approfitto della sosta per ricordare al conduttore di
farmi scendere all’aeroporto di Varadero: Frank mi aveva assicurato che c’era una fermata
obbligatoria, ma meglio assicurarsi preventivamente. Meno male, infatti, che mi è venuto in mente
di farlo, perché quando giungiamo al bivio dell’aeroporto, alle sette circa, sono l’unico a scendere,
sotto lo sguardo stupito degli altri passeggeri e dell’autista. Poi il pullman riparte e si allontana
rapidamente su questa autostrada semideserta.
Mi guardo intorno e mi sembra di essere Cary Grant nel film “Intrigo internazionale” in quella
scena in cui si trova da solo in mezzo alla strada nel deserto quando viene attaccato da un piccolo
aereo da turismo e allora per sfuggire agli spari comincia a correre e si nasconde in un campo di
mais. Spero che non succeda anche a me la stessa cosa, perché qui vicino non vedo campi di mais.
Dal bivio parte una stradina secondaria che si inerpica su per una collina e scompare dietro ad
essa subito dopo: oltre non si vede più nulla e così metto a frutto la mia immaginazione per capire
dove sarà l’aeroporto. Il mistero è subito svelato quando l’occhio mi cade su un cartello che dice:
“Aeropuerto 6 km”.
Dopo alcuni istanti di sgomento mi riprendo e mi metto ad aspettare che passi qualcuno per
chiedere un passaggio. Purtroppo, però, in questa zona sembra che nessuno faccia particolarmente
caso ad un povero turista solitario pieno di borse, dato che le poche auto che svoltano da questa
parte per poco non mi portano via la mano che sto agitando. Per non parlare dei pullman
granturismo che trasportano tonnellate di turisti organizzati del tipo “tutto-compreso”.
Arrivano a piedi alcune donne e uomini con l’uniforme blu (devono essere i dipendenti
dell’aeroporto) e anche loro si fermano lì vicino con l’intenzione di chiedere un passaggio. Mi sento
un po’ meglio, se non altro perché sono il primo della lista d’attesa. Ma mi rendo subito conto che
nella mia lista d’attesa ci sono solo io: infatti le auto che passano di qui si fermano, caricano i
passeggeri e ripartono ignorandomi completamente. Mi pare di capire che c’è una convenzione
locale della quale non faccio parte.
La stessa cosa si ripete un paio di volte e quindi capisco definitivamente che anche se rimango lì
tre giorni nessuno mi darà mai un passaggio. Così alle otto circa raccolgo le mie borse e mi metto in
cammino: anche fermandomi più volte per riposare, in due o tre ore dovrei arrivare all’aeroporto, e
siccome il volo è previsto per le 17 posso andare con tutta tranquillità.
La strada è in leggera salita, ma non è faticosa: un rettilineo lunghissimo che arriva in cima ad
una collina. Ogni tanto sento il rombo di un’auto che arriva da dietro, ma ormai non ci faccio più
caso. E invece ecco che una si ferma:
- Salga, le do un passaggio! - mi dice il tipo a bordo di una piccola jeep scassata.
Non posso crederci, forse sto sognando. Comunque salgo, la macchina si muove effettivamente e
quindi deduco che non è un miraggio.
- L’aeroporto è lontano. Non aveva mica intenzione di farsela tutta a piedi?
- Beh, non avevo scelta...piano piano ci sarei arrivato.
Il tipo è cordiale e amichevole (meno male: una nota felice in una mattinata tanto difficile).
- E’ venuto in vacanza a Cuba?
- Sì - tralascio di raccontargli tutta la mia storia perché sarebbe troppo lungo, così gli lascio
credere di essere un normale turista. - Dovevo partire da L’Avana ma non c’era posto. E lei?
Lavora all’aeroporto?
- Sì, nella zona carico merci.
In cinque minuti arriviamo a destinazione.
- Buon viaggio! Magari ci si rivede dentro l’aeroporto...
- Sì! Grazie del passaggio, senza di lei non so come avrei fatto.
Mi incammino verso la sala d’aspetto e cerco una soluzione al problema più grande che mi resta
ora da affrontare: far passare il tempo. Per il momento la prima cosa che mi viene in mente è
sempre la solita: sedermi ed aspettare (anche perché in una sala d’aspetto, come dice il nome, non è
che si possa fare altro).
Intanto osservo il via vai di turisti: pullman che arrivano, aerei che partono... Sono l’unico essere
umano che non è coinvolto in nessuno di quei branchi.
Rifletto un po’ sugli ultimi mesi trascorsi, all’entusiasmo che avevo quando ero partito dall’Italia
e alle cose successe qui. Insomma, mica me l’ero inventato io di essere assunto nel centro di
calcolo, mi avevano chiamato loro! Poi si scopre che a causa di varie trappole burocratiche non
posso essere assunto subito; lavoro pure gratis, volontariamente, ma non ho diritti come gli altri; la
direzione tergiversa ed evita accuratamente di entrate in contatto con me. A tutto ciò si aggiungono
la difficoltà di movimento, di comunicazione e infine anche quella di rendere compatibile lo status
di residente cubano con quello di cittadino italiano: per uscire da Cuba e tornare per qualche
settimana nel mio paese devo chiedere il permesso alla polizia locale, pagare dei quattrini e
attendere settimane! Semplicemente pazzesco. Mi sembra di essere l’agrimensore K. nel romanzo
“Il castello” di Kafka: spero di non fare la stessa drammatica fine. Lasciamo perdere: l’importante è
che, dopo tanto correre di qua e di là per fare e disfare documenti, ora sono qui all’aeroporto, pronto
a partire. Non può succedere più nulla di angosciante: al massimo l’aereo potrebbe essere in ritardo
o potrebbero annullare il volo o potrebbe esserci qualche problema di overbooking, ma sono cose
che succedono normalmente negli aeroporti e penso di esserci psicologicamente preparato. Quando
arriverò in Italia dovrò fare i documenti per Maribel: bisognerà correre ancora per vari uffici, ma
sarà sicuramente meno stressante che qua.
Ad un certo punto di fronte a me si siedono due donne sui cinquant’anni, presumibilmente delle
dipendenti dell’aeroporto. Chiaccherano tra loro e dopo un po’ una si alza e se ne va mentre l’altra
attacca bottone con me:
- Hai l’ora per favore? - mi chiede.
- E’ quasi mezzogiorno.
- Sei argentino?
Negli ultimi tempi mi hanno scambiato per cileno, spagnolo, argentino, meno che per italiano:
segno che mi sono mimetizzato abbastanza bene...
- No, sono italiano.
- Ah, italiano. Però parli bene lo spagnolo! - (come se per rispondere che ora è bisognasse avere
la laurea in letteratura ispano-americana!).
- E’ che mia moglie è cubana. - spiego.
Così cominciamo un dialogo abbastanza amichevole, nel quale racconto un po’ della mia storia.
La tipa si dimostra sorpresa e allo stesso tempo entusiasta di sentire le mie parole, anche perché mi
dice di essere stata una combattente durante la guerra di liberazione e quando le dico che anche mio
suocero lo è stato va in estasi. Quando la sua collega ritorna le fa un riassunto di tutto quello che le
ho raccontato:
- Sai, questo ragazzo è italiano, vive qui a Cuba, è sposato con una compañera e suo suocero si
chiama Luis, è un ex-combattente di Niquero...
L’amica non è da meno in quanto ad affabilità. Si va avanti un po’ a chiaccherare, poi, siccome
ho fame, chiedo se sanno dove si può mangiare qualcosa.
- No, qui non c’è quasi niente, solo il bar ma è in dollari. - dice dispiaciuta. - Ma aspetta, vado a
vedere ché magari riesco a farmi dare qualcosa dalla mensa dove mangiamo noi...
Cosa non si fa per aiutare un compañero! Comunque non avrei avuto problemi a spendere
qualche dollaro per mangiare, ma mi sembrava scortese rifiutare la sua offerta.
Purtroppo però torna a mani vuote, scusandosi perché non è riuscita a trovare niente dato che in
mensa non c’è nessuno.
Poco dopo si congedano, ci salutiamo e mi fanno tanti auguri.
Il tempo continua a trascorrere lentamente, molto lentamente: le ore sono interminabili e mi
sembra che la sera non arrivi mai.
Vado nell’unico bar a mangiare un panino e scambio qualche parola col barista. Esco in strada
dove ci sono alcuni chioschetti che vendono souvenir, libri e giornali: compro qualcosa da leggere,
un genere leggero... come il testo della recente “Legge sugli investimenti stranieri”... che divoro in
pochi minuti e apprendo così che se fossi stato miliardario avrei potuto aprire un’attività in proprio,
assumere dipendenti locali pagandoli quasi niente e portarmi via gli utili di esercizio Ma siccome io
non sono miliardario ora capisco perché la mia presenza in questo paese è abbastanza indifferente
per lo stato cubano. Ritorno nel salone d’attesa e mi accorgo che la mia borsa non ha il talloncino
con il mio nome e cognome, così ne prendo uno dallo stand di una compagnia aerea canadese, lo
compilo e lo applico.
Finalmente si apre il check-in per il mio volo. Mi metto in coda. Gli altri viaggiatori sono tutti
italiani: alcuni in bermuda, altri in tenuta sportiva, tutti abbronzati come dei peperoni, faccia
standard con sorriso a sessantaquattro denti, borse cariche di “souvenir” come sigari e rum. Certi
gruppi si intrattengono fino all’ultimo con il coordinatore cubano del loro villaggio turistico, dove
hanno trascorso gran parte della loro vacanza immersi nel paradiso dei cinque sensi. I discorsi che
sento sono tutti uguali: raccontano di mare, spiaggie, donne, treccine, danze, vestiti, regali,
discoteche, soldi, auto, tiendas, cene; sembra che abbiano visto e fatto un sacco di cose, ma
analizzando i loro racconti mi accorgo che manca qualcosa: oltre al loro accompagnatore, infatti,
sembra che non abbiano conosciuto e visto nessun altro essere umano cubano. Allora mi guardo e
mi chiedo se non ho per caso sbagliato aeroporto: sto veramente a Cuba?
Giunge il mio turno e sono l’ultimo della mia fila. Ma mentre consegno passaporto, biglietto e
borsa alla ragazza del banco il mio sesto senso mi indica che sulla destra due occhi mi stanno
osservando da una distanza compresa tra tre e quattro metri. Mi giro con indifferenza (fischiettare,
in questi casi, è sempre un’ottima precauzione!) e scopro un agente della dogana, appoggiato con
fare indifferente al banco, che mi guarda celando malamente un sorrisetto che sa di sfida, del tipo:
“Adesso che passi nella zona doganale vedremo un po’ cosa trasporti nel tuo bagaglio a mano...”.
Il mio sguardo, invece, celava malamente un’espressione del tipo: “Beh? Che cazzo guardi?” e sono
sicuro che non l’ha capita perché ho evitato accuratamente di fargliela in lingua spagnola.
Passo dunque nella coda successiva, che è quella del controllo passaporti. Dopo circa mezz’ora,
durante la quale mi devo ancora una volta sorbire i discorsi noiosi dei turisti italiani all-inclusive,
arriva il mio turno. Consegno i documenti. Tutto bene: l’agente, che deduce dal mio passaporto che
sono un residente, mi chiede dove abito.
- Niquero. - gli dico.
- Ah, io sono di Manzanillo! - e gli si illuminano gli occhi come se avesse reincontrato un suo
lontano parente. Mi saluta con un sorriso fraterno, come se ci conoscessimo da tanti anni, mi augura
buon viaggio e passo avanti.
Ora resta solo più da fare la radiografia del bagaglio a mano e poi ho finito. Praticamente sono
già sull’aereo. Metto lo zainetto e la borsa fotografica sui rulli e li recupero subito dopo. Ma mentre
mi sto voltando per andare via una voce mi chiama:
- Signore! Può passare da questa parte, per favore?
E’ un agente della dogana che tiene in mano una borsa nera, quasi come la mia....Ma.. È LA
MIA!!! E lui...è...è il tipo di prima, quello che stava nel salone del check-in!
- Questa è la sua borsa? - mi chiede.
- Sì - rispondo, con la poca voce che mi è rimasta dopo lo choc. Ma come avrà fatto ad
impossessarsi della mia borsa? Magia, telecinesi o trasposizione della materia? Deduco, quindi, che
da parecchio tempo ero sotto osservazione: chissà dove stavano le telecamere che mi riprendevano
da stamattina? O forse avevano delle “talpe”? Per esempio, chi era veramente il tipo che mi ha dato
il passaggio in auto? E le due donne? Erano forse delle agenti segrete? E il barista? Mistero.
- Venga da questa parte. Non si preoccupi: è un semplice controllo formale.
Ecco le solite parole: un Semplice Controllo Formale. Se mi avessero detto: “Venga da questa
parte. Non si preoccupi: la sodomizzeremo con una mazza da baseball, le estrarremo due molari a
caso senza anestesia e la obbligheremo a vedere un film di Zeffirelli.” mi sarei agitato di meno.
Invece, il Semplice Controllo Formale ha sempre qualcosa di angoscioso: mi vedo già come
Alberto Sordi in “Detenuto in attesa di giudizio”, con Maribel che supplica le autorità di liberarmi:
- Vi prego, liberatelo! È vero, si mette le dita nel naso e bestemmia in endecasillabi, ma è un
bravo ragazzo e non farebbe male a una mosca!
Seguo quindi l’agente e il suo collega che mi portano in uno stanzino, quello che si vede sempre
nei film di spionaggio, e lì comincia quello che definirlo un Semplice Controllo Formale sarebbe un
eufemismo.
- Può aprire la borsa, per favore?
Apro e resto a guardare. Ma anche loro restano a guardare, così uno dei due rompe il ghiaccio:
- Bisogna tirare fuori tutta la roba...- dice in modo da invitarmi a farlo. L’altro, intanto, si siede e
mi controlla il passaporto:
- Lei è residente qui a Cuba?
- Sì.
- E come mai?
- Beh, sono sposato con una cubana.
- E dov’è adesso sua moglie?
- È rimasta a casa.
- Lei parte per l’Italia e sua moglie non viene all’aeroporto per salutarla? - dice con tono
fortemente dubitativo.
- Sì, ma noi abitiamo a Niquero... (caspita! Speriamo che sappia dove si trova Niquero!) ... e il
viaggio è problematico...sapete, vero?
- Sì, però sarebbe potuta venire con Lei, no? - accentua il tono inquisitorio.
Incredibile! Sembra che le mie risposte non gli piacciano.
- Guardi, il biglietto del treno costa caro ed era inutile che mia moglie venisse qui a perdere
tempo e denaro.
Forse questa volta ho risposto esattamente. E infatti si passa alla prossima domanda:
- E Lei che cosa fa qui a Cuba?
- Ehm, io...sono analista e programmatore informatico e... lavoro nel Centro di Calcolo di
Niquero - bluffo tremendamente, dato che in realtà al Centro di Calcolo non mi hanno mai assunto,
ma confido nel fatto che tanto lui non potrà mai verificarlo in un tempo ragionevole, diciamo...
considerando lo stato delle linee telefoniche... entro due o tre ore. Ed io, per allora, starò già
sorvolando l’Atlantico. Spero.
- Quanto guadagna? - domanda-chiave per vedere se mento.
- Duecentocinquanta pesos.
La risposta pare soddisfarlo.
- Sua moglie come si chiama?
- Maria Isabel Polanco Peregrino.
- E dove lavora? - mentre mi fa le domande prende nota di tutto su un foglio.
- All’Assessorato alla Cultura. È Responsabile del Personale.
Fa una pausa, poi riprende:
- E dov’è adesso?
Un’altra volta? Ma se ho già risposto esattamente poco fa!
- Gliel’ho già detto. A casa.
- Di solito le mogli accompagnano i mariti in viaggio, o perlomeno fino all’aeroporto...
- Be’, la mia no.
Nel frattempo l’altro sta esaminando minuziosamente tutto il mio bagaglio, compresi il tubetto
del dentifricio e gli indumenti sporchi.
- Quando è entrato a Cuba?
- Nove mesi fa.
- Ma qui sul biglietto c’è scritto che è arrivato solo tre settimane fa.
- Sì, perché venni con un volo di sola andata. Nel biglietto che Lei ha in mano, e che hanno
emesso poche settimane fa, hanno indicato una data fittizia... Non mi chieda perché... Forse per
questioni amministrative...
Intanto mi innervosivo sempre di più, perché del mio bagaglio avrei potuto giustificare qualsiasi
cosa, tranne:
a) 100 sigari comprati al mercato nero da un amico di Frank;
b) alcune decine di dischetti per computer contenenti programmi che avevo portato dall’Italia,
pensando che sarebbero serviti al Centro di Calcolo.
Avendo ormai capito di che pasta erano fatti i due agenti e dato che si stava avvicinando il
momento X, il mio sistema nervoso cominciava ad alterarsi e questa cosa fu notata:
- Si sente nervoso?
-Chi? Io? Suvvia, ma che dice... Be’, solo un po’... sa... non sono cose che capitano tutti i
giorni... farsi perquisire... - ma la pozzanghera di sudore ai miei piedi dimostrava proprio il
contrario.
- Non c’è motivo di essere nervosi - dice, ma in realtà voleva dire qualcosa come “Tanto adesso
arriviamo al doppio fondo della borsa dove tieni i cinque chili di cocaina che vorresti esportare in
Europa!” oppure “Lo so che nascondi dei microfilm di importanza strategico-militare dentro gli
obiettivi della macchina fotografica!”
- E questo cos’è? - dice sorpreso, maneggiando una scatola nera con dei fili che fuoriuscivano.
- È l’alimentatore di un registratore.
- E il registratore dov’è?
- In Italia.
- E perché ha portato a Cuba l’alimentatore e ha lasciato il registratore in Italia? - in effetti la sua
domanda, stavolta, è legittima. Ma che ci posso fare io se il registratore non ci stava più nella
valigia?
I due si consultano, poi uno esce con il mio alimentatore.
- Ma... Cosa ne fate? Il mio registratore non può funzionare senza l’alimentatore!
- Non si preoccupi: glielo restituiamo subito. Il mio collega va solo a verificarlo con i raggi X.
Poco dopo il collega ritorna:
- Ok. Tutto a posto. - e mi restituisce il prezioso e innocente apparecchio.
L’ispezione continua:
- Cosa c’è in questa busta? - Era una busta che mi aveva dato un mio amico italiano, studente
all’Università dell’Avana, da consegnare ad una sua amica in Italia.
- Ci sono dei ritagli di giornale e una musicassetta, ma non sono miei, sono di un mio amico.
- Cosa c’è registrato nella cassetta?
- Musica, suppongo. Ma come le ripeto è roba di un mio amico...
Il tipo che conduceva l’interrogatorio... pardon!... volevo dire: il tipo che conduceva il Semplice
Controllo Formale a questo punto si consulta con il collega:
- Che facciamo?
- Mah, non so. Bisognerebbe ascoltarne un pezzo... per vedere cosa contiene...
- Abbiamo un registratore?
- Prova ad andare lì nel duty free shop, chiedi se ti prestano un momento l’impianto di diffusione
sonora.
- Sì ma poi si sente in tutto l’aeroporto!
- Ma no! Abbassi il volume... E poi devi sentirne solo un pezzo....
Il collega esce con la cassetta, mentre l’altro controlla i ritagli di giornale e una lettera che gli
capita tra le mani:
- Questa lettera?
- È sempre del mio amico. Devo consegnarla in Italia...
- Non lo sa che non è permesso portare con se la corrispondenza? Per queste cose bisogna usare
il Servizio Postale. - mi ammonisce.
- Sì, se funzionasse... - rispondo.
- Come, scusi?
- Volevo dire che il servizio internazionale è molto lento... Poi a volte le lettere si perdono.
Ritorna il collega:
- Va bene. C’è solo registrata della musica.
Riprende ad estrarre effetti personali dalla mia borsa e la cosa pare ora interessarli molto, forse
perché non avevano mai visto così tante categorie merceologiche contenute in un solo bagaglio:
- Sigari? Dove li ha comprati?
- Per la strada - (questa risposta fu un ottimo suggerimento dello stesso Frank, e ha funzionato
benissimo).
- Quanto li ha pagati?
- Venti dollari.
I due agenti si guardano per qualche istante in maniera interrogativa, poi annuiscono. Meno
male! Anche i sigari sono in salvo.
Poi appare magicamente un sacchetto di plastica dove tenevo dei ricordi, come delle foto che
avevo fatto in Nicaragua e Salvador anni fa, più alcune cartoline di amici che avevo conservato e
che mi piaceva guardare di tanto in tanto.
- Ah, ma Lei si porta dietro un sacco di corrispondenza! - esclama sorpreso.
- Veramente è corrispondenza che è già arrivata a destinazione... Vede? Ci sono i timbri postali.
- E queste foto, dove le ha fatte?
Che rispondo adesso? Cosa mi invento? Decido di continuare sulla linea della “Verità a tutti
costi”:
- In Centroamerica... Ho partecipato a dei campi di lavoro... di solidarietà con i sandinisti... e il
Fronte Farabundo Martì... È parecchio tempo che collaboro... cioè... con associazioni
internazionaliste... io sono un internazionalista... - farfuglio un po’, perché farmi pubblicità da solo
non mi viene bene.
Pausa lunga. Poi uno dei due agenti improvvisamente mi chiede:
- Lei è comunista?
Se sono comunista? Mi sarei aspettato domande di qualsiasi genere, includendo anche “Quante
volte al giorno si masturba?”, ma a questa proprio non ci sarei arrivato. E poi il maccartismo non è
finito già da un bel pezzo?! Quale sarebbe poi lo scopo di questa domanda? Una statistica per
sapere quanti turisti stranieri sono comunisti e quanti no? Oppure semplice curiosità per invitarmi
poi ai festeggiamenti del 26 luglio? Non ho molto tempo per rispondere. Cosa gli dico? Gli dico la
verità, cioè “Sì”, sperando quindi che il Semplice Controllo Formale si avvii a rapida conclusione?
O gli dico: “E a voi che ve ne frega?” (naturalmente usando una versione più diplomatica). Già, ma
nelle loro grinfie hanno ancora più della metà del mio bagaglio, compresi i dischetti del computer.
Meglio non farli innervosire. Magari gli rispondo di no, tanto se dico di sì non mi crederanno mai.
Però come mi giustifico con quello che ho detto prima riguardo alle foto? No, no...meglio
continuare ancora sulla linea della verità:
- Sì, sono comunista. - Non mi era mai capitato di dover rispondere ad una domanda simile, così
senza preavviso. E infatti mi sento a disagio. Loro apparentemente non fanno una piega ma, chissà
perché, ho la netta sensazione che si stiano trattenendo a stento dallo scoppiare in una fragorosa
risata. Un leggero sorrisino sarcastico compare sulla bocca dell’agente che mi aveva posto la
domanda. Forse crede che di comunisti non ce ne siano più, al di fuori di Cuba. O forse non ce ne
sono più nemmeno a Cuba e il fatto di essersi trovato di fronte ad uno dei pochi esemplari rimasti
sulla Terra lo diverte. Spero che non mi chiedano di esibire la tessera del Partito, perché non sono
mai stato iscritto a nessun partito. Anche questa è un’anomalia difficile da giustificare: come glielo
vai a spiegare a un agente della dogana di Cuba che in Italia si può essere comunisti anche senza
essere iscritti al Partito?
Altra pausa. Le pause sono estenuanti, perché la loro durata è direttamente proporzionale
all’assurdità della domanda che ti sta per essere posta:
- È mai stato in Canada?
- In Canada? Perché sarei dovuto andare in Canada?
- Allora come mai sulla sua borsa c’è l’etichetta di una compagnia canadese?
- Ma...veramente...l’ho presa qui fuori...io...cioè...non vedo cosa ci sia di strano...
Pausa breve.
- Queste scatole cosa contengono?
- Ci sono dischetti per computer.
- E che tipo di programmi si sta portando via?
- Veramente non li sto portando via, li ho portati qui dall’Italia...per il Centro di Calcolo di
Niquero dove lavoro - dico.
Sono soddisfatti anche di questa risposta e perciò i dischetti sono salvi. Ciò che non so se si
salverà è il mio sistema nervoso centrale.
Il contenuto della borsa nera si è finalmente esaurito. Passiamo ora al bagaglio a mano. Vengono
estratti dei pezzi di giornale che mi ero portato da usare come carta igienica se per caso nel treno ne
avessi avuto bisogno. Il caso volle che quelle pagine contenessero un lungo discorso del
Comandante, ma giuro che non l’avevo fatto con nessuna intenzione oltraggiosa...
Pausa lunga.
- Cosa se ne fa di tutti questi ritagli di giornale?
- Ah, quelli? Mi servono se per caso devo andare al gabinetto...
Li guardano con aria dubbiosa.
- Voi invece con cosa vi pulite, di solito? - avrei voluto chiedere. Non vorranno mica farmi
credere che riescono a trovare la carta igienica in pieno periodo especial! E poi quella è la fine
naturale dei giornali cubani. Non c’è famiglia che nel proprio bagno non abbia i suoi bei fogli di
quotidiano appesi con un chiodo al muro. A volte alcuni parenti un po’ scaltri, quando sono in visita
a casa tua e vanno al bagno, te li rubano pure.
Intanto uno degli agenti ha trovato la busta nella quale tenevo i soldi, sia dollari che pesos.
- I pesos cubani non si possono esportare. - mi ammonisce.
- Ma mi servono per il ritorno, per pagare il treno.
- Voi stranieri dovreste pagare in dollari. I servizi pagabili in pesos sono solo per i cubani.
- Sì, ma io vivo qui! E le tariffe in dollari sono altissime...dobbiamo anche risparmiare, no?
L’agente che prendeva nota di tutto si annota anche la somma di denaro trovata.
L’ispezione del bagaglio sta per finire: un’occhiata a un flacone di Colonia, che avevo comprato
per fare un regalo a mia madre, e agli astucci della macchina fotografica. Tutto a posto.
Di solito, però, un’ispezione che si rispetti non può concludersi senza una perquisizione
personale (anche perché finora non hanno trovato niente di compromettente, ma sotto la t-shirt
potrei anche nascondere qualcosa come, per esempio, un lanciamissili terra-aria o un satellite-spia
gonfiabile).
- Ha qualcosa nelle tasche?
- Il portafoglio - rispondo.
- Vediamo.
Tirano fuori tutto, compresi altri soldi e alcuni biglietti da visita:
- Chi è questo Frank Puerto?
- Un mio amico de L’Avana.
- Va bene. Può rimettere tutto a posto.
La perquisizione finisce qui. Per loro sembra tutto in regola (o forse, semplicemente, ho risposto
esattamente a tutte le loro domande) così mi lasciano andare. Riassetto i bagagli e uno dei due
agenti si riprende la mia borsa nera e la riporta dove l’aveva presa, al check-in.
Esco dallo stanzino e mi sento abbastanza frustrato. Ormai qualsiasi altra cosa dovesse succedere
non mi farebbe più nessun effetto: il mio cervello si è scollegato, non pensa più a niente. Sono solo
un corpo che cammina e non vede l’ora di salire su quel benedetto aereo.
La sala d’aspetto è piena di gente, c’è un brusio incredibile che contrasta con il silenzio di poco
fa, c’è un trio musicale che intrattiene i turisti cantando “Guantanamera” e “Arrivederci Roma” (mi
sfugge il nesso...sarà che la maggior parte dei turisti in partenza sono italiani... Allora se erano
svizzeri che cosa gli cantavano, “Lugano addio”? ).
Vado verso il bar, con l’intenzione di ordinare qualcosa di veramente forte, per tentare
dimenticare ciò che è accaduto nell’ultima mezz’ora. Cosa c’è di meglio che affogare tutto in un
buon bicchiere d’alcol? Guardo gli scaffali dove c’è di tutto: whisky scozzese e bourbon, rum,
tequila, cointreau e porto. Ho solo l’imbarazzo della scelta. Si avvicina il cameriere e mi chiede:
- Desidera, signore?
Esito un momento, poi sommessamente dico:
- Una birra. Piccola.
L’arrivo in Italia dopo nove mesi è impressionante. Quando salgo sul pullman che dall’aeroporto
mi porta alla stazione del treno mi sembra di essere entrato in un’astronave e l’autostrada somiglia
ad un videogame. Nove mesi a volte sembrano nove anni.
Arrivo a casa dove mia mia madre mi sta aspettando ansiosa:
- Ciao, mamma. Sono tornato!
- Oh, tesoro, come stai? Guarda come sei magro!
- Veramente sono sempre uguale...
- Eh no, ti vedo io che sei più pallido... Ma mangiavi là?
- Senti, volevo dirti... che io e Maribel abbiamo deciso di venire a vivere qui in Italia.
- Oh, davvero? Come sono contenta!
- Ah, dimenticavo. Ti ho portato un regalino.
Vado ad aprire la borsa per prendere il flacone di Colonia e... non c’è più!
- Me l’hanno fottuto! Incredibile! Me l’hanno fottuto! Che stronzi! - esclamo arrabbiato.
- Cosa? Chi?
- Mi dispiace: ti avevo portato un flacone di Colonia ma qualcuno me l’ha rubato dalla borsa!
- Va be’, non ti preoccupare, fa lo stesso. Cosa ti preparo da mangiare? Sarai affamato!
Successivamente mi sono messo a riflettere su questa simpatica esperienza appena raccontata.
Avrei voluto trovare la risposta a molte domande, ma sinceramente non ci sono risucito. In
compenso ho potuto trarre alcuni insegnamenti. In realtà sarebbero parecchi, quindi mi limiterò a
enunciare solo i tre più importanti:
1) non giungete mai all’aeroporto con un anticipo superiore alle otto ore, in quanto potreste dare
nell’occhio. All’uopo ricordate anche che chi non viaggia in un gruppo numeroso (dove per
numeroso si intende due o più persone) farebbe bene a fingere di far parte di uno di essi, per
esempio aggregandosi ad una conversazione o chiamando qualcuno ad alta voce;
2) non date troppa confidenza agli estranei che incontrate nei dintorni dell’aeroporto; un
semplice barista o un’innocente donna delle pulizie potrebbero nascondere in realtà il capo dei
servizi segreti in uno dei suoi migliori travestimenti;
3) se volete fare un regalo a vostra madre non pensate ad una Colonia o a qualcosa del genere,
poiché potreste “perderla” durante il viaggio; meglio scegliere dei buoni sigari, magari comprati al
mercato nero, e sarete sicuri che arriveranno a destinazione.

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