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Ristrutturiamo il tetto!
La casa dove vivevamo a Niquero era più che dignitosa: spazio ce n’era a sufficienza, il “patio”
era abbastanza grande e c’erano persino alcune piante da frutta (avocado, banane e mango); c’era
spazio per un piccolo pollaio e per la casetta del maiale. C’era anche un delizioso gazebo in paglia
sotto il quale mi rinfrescavo nelle calorose estive sieste pomeridiane, dondolandomi nell’amaca.
Purtroppo, però, non riuscivo mai ad addormentarmi perché c’era sempre un via vai di gente,
peggio che in un porto di mare, e sul più bello quando gli occhi ti si stanno per chiudere e nelle
orecchie percepisci solo più lo spirare di una leggera brezza e il canto dei galli del vicinato (che
cantano a tutte le ore), arrivava sempre qualcuno che, trovando la porta aperta, giungeva fino a me
nel cortile esclamando “Hola, Ale! Qué tal? Estás aburrido?”. A tale domanda (per la quale ogni
risposta sarebbe stata superflua o offensiva) il mio corpo sussultava e a stento evitavo di cadere
dall’amaca.
La casa, dicevo, era abbastanza confortevole. Aveva solo alcuni lievi difetti. Primo: come tutte le
case “de placa” nel periodo da maggio a ottobre si trasformava in un forno crematorio. Secondo:
come tutte le case “de placa” di stampo cubano-socialista la planimetria era sempre la stessa già
vista in altre milioni di case sparse per tutta l’isola, con quell’odiosa “zona notte” tipo open-space,
cioè con le camere comunicanti, senza pareti né porte, e con il bagno in mezzo. L’architetto che ha
progettato questo modello di abitazione doveva essere un sadico. In una stanza da letto simile se ci
vivi da solo con tua moglie e i figli potrebbe anche andare bene, ma se ci vivi con genitori, suoceri,
fratelli, cognati, nipoti o simili vorresti poter disporre di un po’ di privacy in più, specialmente tra le
ore 24 e le 8 e specialmente se ti dedichi ad attività motorie che per loro natura comportano
notevole agitazione e produzione di inconfondibili suoni (al termine di tale attività speri sempre
che, mentre ti rechi in bagno, all’occupante dell’altra stanza non venga in mente di fare la stessa
cosa). Terzo: la cucina e il “comedor” erano stati aggiunti in un secondo momento e (forse per
problemi economici) il tetto in queste due zone non era stato fatto “de placa” ma “de fibrocen” (il
tristemente famoso fibrocemento a base di fibre di amianto cancerogeno, di cui Cuba ne è fiera
produttrice.. chissà fino a quando?) e siccome era stato montato male, nelle giornate di pioggia
pioveva sia fuori che dentro casa.
Per i primi due difetti non c’erano molte soluzioni possibili, se non abbattere l’immobile e
costruirne uno nuovo. Per il terzo, invece, avevamo pensato ad una leggera ristrutturazione, che
consisteva nello smontare il tetto e rimontarlo con una pendenza maggiore, affinché l’acqua piovana
potesse scorrere via più facilmente.
Fu così che cominciò la ricerca dei materiali da costruzione per avviare l’opera.
Occorrevano delle travi nuove, dei mattoni, dei chiodi, sabbia e cemento. Cose del tutto normali,
quindi, ma a Niquero praticamente introvabili. E anche a Bayamo non è che fosse più facile. Forse a
L’Avana si sarebbero trovati, disponendo di dollari, ma chissà a che prezzi (e comunque non
potevamo andare fino là a prenderli).
Cominciammo con il cemento: ci venne proposto di acquistare un sacco di cemento a 35 pesos
da un amico non meglio identificato che si presentò a casa nostra. Veniva gente quasi tutti i giorni a
casa nostra a proporci qualcosa da comprare. Sapendo che in quella casa ci vivevo io ipotizzavano
che fossi un buon socio per fare affari. Così non avevo che l’imbarazzo della scelta: pesce fresco (e
anche meno fresco), aragoste, radio rubate, mangime per animali, latte in polvere, latte in bottiglia,
automobili, animali vivi... Se avessi dovuto comprare tutto ciò che mi proponevano sarei rimasto
senza soldi dopo una settimana. Invece “selezionavamo” i prodotti, accettando solo quelli di cui
avevamo reale necessità. E non era nemmeno facile prendere certe decisioni. Come fai ad accettare
serenamente che una giovane donna ti offra le due libbre di latte in polvere che lo stato le fornisce
per il suo bebé e che lei invece preferisce vendere a 50 pesos perché le servono per comprare le
scarpe al bambino? L’unica persona che spesso si presentava a casa nostra non per vendere ma per
chiedere qualcosa era una signora piuttosto malandata, di circa ottant’anni (o forse ne aveva meno,
ma li portava male!) la quale, poverina, non era molto in sé, nel senso che il suo cervello da un bel
po’ di tempo l’aveva abbandonata. La scena era sempre la stessa: bussava alla porta, io aprivo e lei
mi diceva: “Buongiorno, non è che avrebbe dei giornali da regalarmi? Sa, sono per mia madre che è
malata...deve andare al bagno”. Sua madre? Ma quanti anni avrà sua madre? pensavo. Centodieci?
“Va bene, aspetti un attimo”. Tornavo con due fogli del Granma e lei incalzava: “Mi regala anche
dei fiammiferi?”. “Mi spiace ma fiammiferi non ne abbiamo. Sono mesi che non li danno”.
Ringraziava e se ne andava. A parte questo, anche se avevamo molte possibilità in più rispetto alle
altre famiglie di comprare dei beni di prima necessità, in realtà quando avevamo bisogno di
qualcosa di specifico non riuscivamo mai a trovarlo. Era appunto il caso dei materiali da
costruzione per rifare questo dannato tetto. Questo amico, quindi, ci permise di acquistare il primo
sacco di cemento (ne servivano tre). Non seppi mai da dove proveniva quel cemento. Ogni mia
domanda al riguardo si perdeva in risposte evasive... Ma non era difficile immaginarlo. Se uno non
è scemo sa che queste materie prime vengono sottratte illecitamente da qualche magazzino statale e
finiscono al mercato nero. Io non è che fossi scemo, solo che forse cercavo inconsciamente di
respingere l’idea di dovermi rassegnare a entrare in questo giro di affari. Ma d’altra parte scoprii
anche che tutti i cubani se vogliono vivere e sopravvivere prima o poi devono entrare in questo giro.
Ci sono entrati tutti, anche stimati funzionari di partito, quindi se volevo rimanere a vivere a Cuba
giunsi alla conclusione che volente o nolente dovevo entrarci anch’io. Il boccone era amaro, ma
dovevo mandarlo giù.
Il secondo sacco di cemento arrivò dopo qualche settimana, sempre con modalità simili. Questa
volta l’amico era di mio suocero, patriota integerrimo, “combatiente de la revolución”, comunista e
rivoluzionario... un cubano che vive a Cuba.
Le travi riuscimmo ad averle da Alberto, un nostro parente che le aveva comprate parecchio
tempo fa perché anche lui doveva rifare il tetto di casa sua, ma per gli stessi nostri problemi di
reperimento di materiali era rimasto fermo. E lo sarebbe rimasto a lungo, perché lui di soldi da
spendere non ne aveva proprio. Ci vendette le sue sette travi a 35 pesos e ci sentivamo felici, perché
erano una delle cose più difficili da trovare.
Ma intanto il tempo passava e ci stavamo preoccupando perché non riuscivamo a trovare i chiodi
e i mattoni, e il cemento che avevamo rischiava di diventare inutilizzabile, perché con l’umidità
cominciava a indurirsi.
Con un po’ di fortuna e l’aiuto di Rogelio, un nostro cugino, riuscimmo ad avere della sabbia. Lo
stesso Rogelio riuscì ad informarsi e a scoprire che a Niquero c’era un tipo che fabbricava mattoni
di terracotta. Incredibile! Era sicuramente un miracolo dovuto a qualche divinità sconosciuta! Ci
recammo da questo “messia” che viveva con la sua famiglia in una zona rurale di Niquero chiamata
El Hato, in una casa di paglia in mezzo alle palme, sulla terra rossa tipica di quelle parti. Mi
servivano 300 mattoni e il prezzo era di 50 centesimi l’uno. Però aveva bisogno di un paio di
settimane per fabbricarli. Va bene. Nel frattempo mi organizzai per il trasporto. Come li porto 300
mattoni? E quanto spazio occupano? Sempre con il prezioso supporto di Rogelio ci venne in aiuto
un tipo che aveva un carretto e un cavallo e per 20 pesos ci fece il servizio. Un altro quesito su cui
non mi ero preparato era: adesso dove li metto? Dopo alcuni ripensamenti decidemmo di
accatastarli di fianco alla casa e di coprirli con un nylon (non si sa mai). E in effetti dopo qualche
giorno capitò l’imprevisto: un violento acquazzone sciolse come dei biscotti inzuppati nel latte tutti
i mattoni che stavano a contatto col terreno. Meno male che ne avevo comprati in abbondanza. Il
perché si siano sciolti con della semplice pioggia è tuttora un mistero irrisolto. Per fortuna gli
antichi romani non hanno usato la stessa tecnica per produrre mattoni di terracotta...
Passavano i mesi e non riuscivamo a trovare l’ultimo tassello del puzzle: i chiodi. Tutti i giorni
andavo a controllare i sacchi di cemento e con sgomento scoprivo che uno dei sacchi era già per
metà indurito. Comprammo, infine, il terzo sacco tramite le solite amicizie, ma i chiodi non ne
volevano sapere di comparire. Ormai eravamo a giugno, i temporali si susseguivano ogni giorno e
temevo per la buona salute dei mattoni...
Poi un giorno, parlando con Palomino, un collega del centro di calcolo, venne fuori che suo
fratello faceva il fabbro e per lui non era un problema fabbricare chiodi. “E non potevi dirlo
prima?”. “Non me lo hai chiesto...”. Così Palomino mi portò da suo fratello che viveva fuori
Niquero, a circa tre chilometri in una località chiamata El Hondón... e il nome era tutto un
programma. El Hondón dà la sensazione di qualcosa di profondo, diciamo di situato in basso; e così
è. A El Hondón quando piove si allaga tutto e non ci si può andare. Essendo la stagione delle
pioggie in elevata attività dovetti rimandare diverse volte l’appuntamento. Quando finalmente
riuscii ad arrivare a El Hondón notai la quantità d’acqua che ancora stagnava sul terreno, nonostante
non piovesse da almeno un paio di giorni e immaginai come dovesse essere due giorni prima...
Parlai, dunque, col fabbro e gli ordinai una libbra e mezza di chiodi da 4 pollici e mezzo al costo di
20 pesos. Me li avrebbe preparati in poche settimane. Ma come faceva a fare i chiodi? mi chiesi.
Allora mi fece vedere tipi diversi di chiodi che stava fabbricando: partiva da un tondino di ferro, lo
tagliava a misura, poi con una mola gli faceva la punta e dall’altra parte lo ribatteva fino a creare
una specie di testa. Forse non era un chiodo elegante, ma aveva tutta l’aria di poter svolgere la sua
funzione. E Niquero era piena di artigiani fantasiosi: scoprii anche che c’era un tipo che fabbricava
cinghiette di gomma per registratori, quelle che fanno girare le puleggie e che spesso si rompono. A
me se ne era rotta una e tramite un collega del centro di calcolo conobbi un tale che in casa sua, non
so come, fabbricava queste cinghiette. Non so come facesse: so solo che usava come materia prima
delle vecchie camere d’aria. E che dire di quel tizio che mi fabbricò un perno nuovo per il
giradischi? Qui, devo dire con orgoglio, ci misi anche io la mia parte. Siccome il mio giradischi era
europeo e funzionava quindi a 50 hertz, qui a Cuba, dove la frequenza è di 60 hertz, girava più
velocemente e i dischi erano inascoltabili. Con carta, penna e righello presi le misure del perno
vecchio, feci alcuni calcoli e ricavai le misure che in teoria avrebbe dovuto avere il perno nuovo.
Alberto mi mise in contatto con un suo amico che lavorava al tornio al Central Azucarero e mi disse
che sarebbe stato in grado di costruire quel perno, ma non aveva il materiale. “Servirebbe un pezzo
di ottone” disse. Mi si accese un neurone nel cervello e pensai ad un vecchio rubinetto che avevo
conservato: il perno di comando sembrava fatto apposta per ricavarci un perno da giradischi.
Neanche Michelangelo ci sarebbe arrivato! Diedi il rubinetto all’amico e dopo alcune settimane mi
consegnò il perno su misura nuovo di zecca. Lo montai e... meraviglia delle meraviglie! Un
giradischi pefettamente funzionante! Ben presto si organizzarono pellegrinaggi a casa mia per
osservare questa prodigiosa invenzione...
Ma torniamo al tetto. Eravamo quasi arrivati alla fine di questa maratona preparatoria. Quando
tornai a El Hondón in bicicletta per prendere la merce, siccome era tutto allagato, come al solito, mi
impantanai in un fango argilloso mai visto prima: una cosa indescrivibile! Dopo solo mezzo giro le
ruote si bloccarono perché il fango era talmente appiccicoso che uno strato spesso almeno due
centimetri era rimasto attaccato tra le gomme e i parafanghi. Pazzesco! Dovetti scendere perché la
bicicletta era inservibile e mi ci volle un quarto d’ora per pulire i parafanghi prima di poter ripartire.
Non solo: anche sotto le suole delle scarpe successe la stessa cosa e imporovvisamente mi ritrovai
più alto di ben tre centimetri... Mi chiesi come faceva la gente a vivere in quel luogo.
Finalmente potemmo dare l’avvio ai lavori. Ci aiutarono dei nostri cugini esperti in lavori di
muratura. Si cominciò al mattino presto perché bisognava assolutamente terminare entro la sera
stessa. Andò tutto bene. Il cemento era ancora utilizzabile e i mattoni furono sufficienti. Anche la
prova dell’acquazzone diede ottimi risultati. Per un po’ di tempo eravamo a posto, anche perché
dopo tutte quelle difficoltà non avevo nessuna intenzione di programmare altri lavori di
ristrutturazione.
Dopo tutta questa faccenda avevo sviluppato un senso quasi maniacale rispetto alla necessità
delle materie prime in generale: non buttavo via niente, conservavo tutto, ancora più di quanto
facessi quando ero in Italia. E scoprii di non essere l’unico. La necessità aguzza l’ingegno e obbliga
ad essere più sensibili rispetto a certe cose. Un giorno transitavo per la via principale in biciletta,
portando Maribel sul portapacchi. Ad un certo punto frenai improvvisamente: “Che fai?” mi chiese.
“Aspetta un momento”. Scesi dalla bicicletta per raccogliere dalla strada una vite che avevo visto
all’ultimo momento. “Questa la tengo. Non si sa mai, può sempre servire”.
ALESSANDRO PILOTTO
CONTINUA
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