Vado a vivere a cuba - 7 -

Creato il 18 luglio 2010 da Astonvilla

Animali
Nota: in questo capitolo verranno trattati argomenti scabrosi riguardanti il destino ineluttabile di alcuni animali
normalmente considerati domestici; dato che i temi affrontati potrebbero, per certe persone, essere considerati
raccapriccianti ed urtare la propria sensibilità se ne consiglia la lettura solo se effettivamente interessati.
Avere a che fare con gli animali a Cuba era cosa più che normale. Non si poteva dire che fosse
prerogativa di chi viveva in campagna, perché anche in città, come a L’Avana, mi era capitato di
osservare incredibili situazioni in cui la relazione uomo-animale diventava un legame più che
necessario (per l’uomo) dovuto a ragioni di importanza vitale, come poteva essere quello
dell’alimentazione: non era raro, dunque, scoprire per esempio nel piccolo patio di una lussuosa
villa in stile neocoloniale un maiale costretto in un metro quadrato, intento a sgranocchiare qualche
buccia di platano, crogiolandosi nella sua melma puzzolente.
Se si voleva mangiare carne con una certa periodicità (non dico tutti i giorni ma almeno una volta
alla settimana) l’unico modo era quello di allevare da se gli animali. Lo stato con la libreta non
passava quasi niente e comunque quelle poche volte bisognava fare una fila incredibile alla casilla.
La casilla è una bottega dove lo stato, mediamente una volta al mese, vende carne, pesce, uova.
Dire “mediamente” è già azzardato: in realtà nemmeno lo stato sa di preciso se e quando, nell’arco,
di un certo mese, si venderà mai carne, pesce o uova. Infatti per la maggior parte del tempo la
casilla è fuori servizio. Ciò non vuol dire che sia chiusa, perché i dipendenti statali che ci lavorano
devono guadanarsi onestamente il salario, mica possono starsene a casa! Allora la casilla rimane
aperta, vuota. Nella cella frigorifera non c’è niente, non c’è niente sul bancone e non c’è niente
sugli scaffali. Ci sono solo i due dipendenti che normalmente con aria annoiata, seduti su una sedia
con i gomiti appoggiati sul bancone, guardano la gente che passa sul marciapiede. Poi quando arriva
il fatidico giorno in cui finalmente per volere di qualcuno situato ad alti posti di comando nella
direzione comunale, provinciale, nazionale o chissà dove si decide che è ora di distribuire qualcosa
ecco che rapidamente la voce si sparge per il villaggio, di casa in casa: “Maria! C’è carne alla
casilla!”,”Carmen! Sono arrivate le uova!”. Allora ti precipiti in strada con la libreta in una mano e
una borsa di plastica nell’altra per dirigerti alla bottega preparandoti a fare una coda interminabile,
magari ti tocca litigare con qualcuno che ti vuole passare davanti, poi scopri che altri hanno invece
il diritto di passarti davanti perché appartengono alla lista “Plan Jaba”, che sono quei nuclei
familiari in cui tutti i componenti lavorano e quindi viene loro concessa questa facoltà. Quando
finalmente riesci a raggiungere il bancone ritiri quel poco che spetta a te e alla tua famiglia: alcune
once di qualcosa che non si sa bene che cosa sia. Di solito davano la cosiddetta jamonada, una
specie di insaccato fatto con carne macinata, simile alla nostra mortadella ma di colore più scuro e,
soprattutto, di un sapore ben diverso. Nessuno ha mai saputo dirmi con quali animali si facesse la
jamonada: forse parecchi, o forse nessuno. A noi che in famiglia eravamo ufficialmente in tre
spettava una fetta di jamonada larga circa tre centimetri. Praticamente la porzione per una persona
normale. Poca roba, quindi, ma almeno per un giorno si riempiva lo stomaco.
Noi stavamo in campagna e là maiali, galline e agnelli erano più numerosi degli umani. Per strada
era più probabile essere investiti da un cavallo che da un’automobile; di notte biciclette e cavalli
senza luci di posizione erano un vero pericolo, specialmente se decidevi di fare una passeggiata
dopo cena a casa di qualche amico e prendevi una di quelle vie secondarie dove l’illuminazione
pubblica non esisteva, o se era mai esistita comunque aveva le lampadine bruciate: capitava allora
che mentre camminavi nel buio più nero tentando di non inciampare in una buca del terreno e di
non finire dentro un tombino aperto delle fognature percepivi dietro di te un rumore, ma non capivi
se era una bicicletta con una o due persone a bordo, oppure un cavallo senza conducente, oppure
poteva essere un cavallo con un carretto, e mentre tentavi di intuire da che parte spostarti per cedere
il cammino, perché non sapevi se loro avevano visto te, riuscivi a malapena ad evitare lo scontro,
dato che in realtà non era da dietro che provenivano i rumori, bensì dal davanti.
A parte questo il rapporto uomo-animale, come dicevo all’inizio, era più che altro basato su una
necessità alimentare. Animali domestici da compagnia non se ne vedevano molti. Qualche raro
gatto, non ancora “trasformato” in coniglio, ma nient’altro. Niente canarini, criceti, pesci rossi o
cincillà; né, tantomeno, pitoni, coccodrilli o tigri siberiane. Per fortuna!, mi vien da dire.
Personalmente non ho mai amato vedere degli animali in gabbia. Cani ce n’erano parecchi, ma non
li classificherei nella categoria “da compagnia”, quanto piuttosto nella categoria “da guardia”
poiché questa era la loro mansione principale. La maggior parte degli animali domestici, dunque,
faceva parte della categoria “da macello”. Ogni famiglia aveva il suo bel maialino o le sue galline o
il suo agnellino destinati al sacrificio e siccome la maggior parte delle famiglie viveva in casette
singole con un po’ di spazio libero nel cortile era facile predisporre un’abitazione anche per gli
animali.
Anche noi avevamo la nostra piccola fattoria domestica. In principo era il maiale, verrebbe da dire
parafrasando un famoso best-seller... e il maiale fu l’animale al quale più mi affezionai e che più mi
stupì per la sua intelligenza, probabilmente superiore a quella del cane. La gallina, si sa, è stupida
per definizione e non c’è niente da fare; anche se vivesse con te cento anni e tu le promettessi di non
sacrificarla lei continuerà ad avere paura di te quando le porti da mangiare. E’ fatta così, non c’è
rimedio. Ma vivendo a stretto contatto per la prima volta con un maiale mi resi conto delle sue
straordinarie proprietà intellettuali.
Dicevo che cominciammo con un maialino che ci venne regalato da un nostro amico, la cui scrofa
ne aveva partoriti ben dodici (un vero capitale!). Era poco più grande di una spanna, dal pelo nero e
già da piccolo si dimostrò irrequieto, mostrando tutto il suo carattere estroso. Lo stesso giorno che
lo portai a casa riuscì a fuggire da una fessura che c’era tra due assi di legno della sua casetta; io
non me ne accorsi, fino a quando bussarono alla porta di casa e un vicino me lo restituì dicendo che
lo aveva trovato e riconosciuto mentre trotterellava nella strada principale del paese. Detto per
inciso, il perché un anonimo vicino avesse riconosciuto il mio maialino dopo solo due ore da
quando ne ero proprietario era l’effetto del fatto che normalmente in un piccolo paese nessuno si
faceva gli affari propri; però almeno questa volta era servito a qualcosa.
Siccome non sapevamo che nome dargli era diventato semplicemente “il Puerquito”. Cresceva
bene, considerando il poco che riuscivamo a dargli: avanzi dei nostri pasti, qualche foglia di banano
e niente di più. Poi un giorno “comparve” un sacco di mangime. Sul come certe cose apparissero
“miracolosamente” ho già avuto modo di parlare nel capitolo 6. Questo sacco, quindi, si
materializzò come per incanto in casa nostra. In realtà, siccome non credo ai miracoli, scoprii che
un collega o amico di Maribel, non ricordo bene, aveva questo sacco da vendere, evidentemente
materializzatosi nelle sue mani per merito di un fenomeno di telecinesi piuttosto diffuso a Cuba,
fenomeno che fa sì che degli oggetti scompaiano da un posto (normalmente un magazzino, una
fabbrica o un deposito statale) e compaiano altrove (normalmente la casa di qualcuno). Ci costò 100
pesos e una accesa discussione tra me e Maribel, dato che ero contrario a questi giochi di
commercio un po’ oscuri. Ma siccome ero da solo a lottare contro i mulini a vento mi rassegnai
anche a questo fatto, come a molti altri. Il Puerquito, almeno, era contento. In realtà il mangime non
era per lui, bensì per la gallina e i pulcini, ma non poteva saperlo perché effettivamente non glielo
avevamo mai detto. Un giorno il Puerquito non si trovava e siccome era come i bambini, che
quando non li senti per alcuni minuti cominci a temere perché sicuramente stanno combinando
qualche marachella, ci venne un atroce sospetto: eccolo lì, infatti, che si rotolava silenziosamente e
beatamente dentro il sacco con aria soddisfatta. Capimmo, allora, che anche lui aveva diritto alla
sua parte di mangime quotidiano.
Cresceva e anche il suo intelletto si sviluppava in egual rapidità; siccome, mentre era ancora
abbastanza piccolo, durante il giorno lo lasciavamo libero nel cortile iniziò a comportarsi da vero
animale domestico. Quando, per esempio, dopo pranzo andavo sotto il gazebo per prendere un po’
di fresco ecco che lui, il Puerquito, veniva ad accucciarsi tra i miei piedi; si sdraiava su un lato e con
aria sonnacchiosa si addormentava. Allora prendevo un bastoncino e gli grattavo la pancia e lui con
un sorrisino sulle labbra pareva dire “Oh, sì, che bello! Continua così, un po’ più giù...”. Di notte lo
mettevamo dentro la sua casetta di legno, di quelle che si usavano qui, sopraelevate rispetto al
terreno e scoperte, e al mattino quando uscivo in cortile appena mi vedeva da lontano si alzava in
piedi sulle zampe posteriori appoggiando le anteriori su uno dei bordi e cominciava a guaire finché
non mi avvicinavo per accarezzarlo e, soprattutto, per dargli la “colazione”, che normalmente
consisteva in una foglia di banano. Insomma, sembrava di avere a che fare con un cagnolino, invece
che con un maiale da macellare; e infatti certe volte già pensavo con rammarico al suo atroce
destino. Invece non con lo stesso rammarico pensavo ai due grossi maiali del nostro vicino
Victoriano, i quali una notte sfondarono la rete di cinta che separava i nostri rispettivi cortili per
venire dal nostro lato a seminare distruzione, come un’orda di barbari: distrussero completamente
delle piante di zucca che stavamo faticosamente facendo crescere, fecero cadere le biciclette
danneggiandone una e se ci fossero state delle bottiglie di rum probabilmente se le sarebbero
scolate. Il giorno dopo non potemmo far altro che constatare la situazione: Victoriano, desolato per
l’accaduto, si scusò. Non ebbi il coraggio di chiedergli nemmeno un peso di risarcimento per i danni
subiti, perché comunque non sarebbe stato in grado di sostenerlo. Anche lui, come tanti altri,
quotidianamente aveva il suo da fare per tirare avanti, mantenere i figli e arrivare fino a fine mese
con il suo salario e quello della moglie. E poi eravamo buoni vicini, c’era un rapporto di stima
reciproca e di mutuo soccorso: spesso ci scambiavamo qualcosa, normalmente generi alimentari,
quando uno dei due ne aveva in abbondanza (il che succedeva raramente!). E poi era veramente un
tipo onesto: pur essendo, sia lui che la moglie, funzionari di partito e lavorando nel settore degli
alimentari non l’avevamo mai visto approfittarsi della sua posizione. La maggior parte delle persone
in paese pensava che Victoriano e la sua famiglia a pranzo e cena facessero banchetti suntuosi,
pensavano che tutti i giorni mettesse in atto la “telecinesi” facendo comparire a casa sua chissà quali
vettovaglie, ma era tutto falso; anche loro, come tanti altri, vivevano con quello che passava la
libreta e inventando delle soluzioni. Come tutti. No, non potevo chiedergli un risarcimento per
quella notte dei maiali; io, con i dollari in tasca, non potevo certo fare il morto di fame e andare a
chiedergli di ripagarmi le zucche e la bicicletta. Non che questo migliorasse la mia posizione,
perché per la maggior parte della gente rimanevo comunque, per motivi a me poco chiari, un morto
di fame. Ma a Victoriano non potevo chiedere nulla. Per me l’episodio era chiuso; un giorno,
quando ne avesse avuta l’opportunità, si sarebbe sicuramente sdebitato. Ai suoi maiali, però,
augurai di andare all’inferno il più presto possibile.
Oltre il maiale avevamo anche una gallina che deponeva uova, quando ne aveva voglia. Un giorno
riuscimmo anche a procurarle anche un gallo e quindi speravamo che prima o poi dalle uova
nascessero dei pulcini. Ci riuscì. In un fortunato periodo depose dodici uova in dodici giorni e (non
finirò mai di stupirmi dei prodigi di madre natura!) decise che era venuto il momento di covarle. Le
avevo preparato un luogo “appartato” fatto con uno scatolone di quelli che avevo usato per il
trasloco Italia-Cuba (non si butta mai via niente) e lei vi entrò come se fosse casa sua. Vi rimase per
venti giorni senza quasi mai uscirne. La gallina sarà stupida ma quando è l’ora di un sacrificio sa
cosa deve fare. Quando nacquero i pulcini eravamo tutti contenti come se fossero anche un po’
nostri figli. Il problema, ora, era solo uno: cosa diamo loro da mangiare? Per i primi giorni ci
pensava la stessa gallina, portava a spasso i pulcini, grattava un po’ per terra, scovava qualcosa e
indicava loro di mangiarselo. Ma quando diventarono più grandi ciò non bastava più. Venne così
fuori il sacco di mangime di cui parlavo prima e ci risolse il problema. Maiale, gallina, gallo e
pulcini erano un bell’impegno, soprattutto quando pensi alla fatica che ti costa in primo luogo
procurarteli, poi mantenerli. E c’è sempre il rischio che di notte te li rubino, oppure che deperiscano
per la fame. Così di notte, mentre dormi, ad ogni rumore sospetto ti svegli, cercando di capire se ti
hanno fottuto il maiale, oppure se è solo un gatto randagio di passaggio. E quando alle tre o alle
quattro del mattino senti il tuo gallo cantare lo strozzeresti volentieri per averti svegliato a quell’ora
indecente, ma almeno sei tranquillo perché sai che non te l’hanno rubato.
Insomma, alla fine questi pulcini crebbero abbastanza e quando raggiunsero una certa taglia... zac!
fuori uno, fuori due, eccetera. In realtà non è che fossero molto grandi, ma il mangime era quasi
finito e quindi non si poteva aspettare oltre. In effetti mi era venuto il dubbio che tutta questa fatica
di allevare animali fosse vantaggiosa e, dato il prezzo del mangime, non convenisse invece
comprare al prezzo di 25 pesos l’uno dei polli già allevati, pronti da mangiare.
Infatti quando decidemmo che dovevamo procurarci un agnello, per avere una riserva di carne nel
congelatore, lo comprammo già cresciuto. Ci arrivò la voce che un amico di un altro amico aveva
un agnello da vendere a seicento pesos. L’offerta ci parve interessante, anche se come sempre
corsero subito le voci che l’avevamo pagato caro, che se avessimo chiesto all’altro amico del tal
cugino l’avremmo pagato meno, eccetera. Chissà perché queste cose me le dicevano sempre dopo
che avevo già concluso un affare e non mi avvisavano prima. Dunque, costui aveva un agnello: non
so bene come lo avesse allevato, dato che viveva al terzo piano di un condominio. Inutile porsi
domande. Andammo una sera all’imbrunire a prendere questo animale. Fuori del palazzo, situato
sulla strada principale di Niquero, c’era un piccolo prato sul quale due grassi maiali riposavano
godendosi le ultime ore di luce, legati ad un albero con una corda. Evidentemente appartenevano a
qualcuno che abitava nel condominio e che tra poco sarebbe venuto a prenderli per portarli a
dormire. Improvvisamente sussultai, immaginando costui portando i due suini su per le scale e
facendoli accomodare nella vasca da bagno. Ma naturalmente era solo una mia fantasia. Invece il
tipo che dovevamo incontrare, l’agnello lo teneva in balcone. Ci aiutò a portarlo giù per le scale,
perché era un po’ restio. Da lì a casa, invece, fu abbastanza facile dato che lo tenevamo al
guinzaglio. Ormai mi ero abituato a cose ben più strane che portare un agnello al guinzaglio per il
centro di Niquero, quindi non feci caso alla gente che mi guardava.
Maribel decise che dovevamo macellarlo la sera stessa.
- “Ma è già buio” obiettai.
- “Sì, ma non possiamo aspettare fino a domani. Dove lo teniamo stanotte? E se ce lo rubano?”.
- “E chi lo fa questo lavoro? Io non sono capace”.
- “Chiediamo a Rogelio, lui è sempre disponibile”.
Rogelio era un nostro cugino che si era sempre prodigato per aiutarci in vari lavori.
- “Senti, Rogelio, avremmo un agnello da macellare. Puoi venire?”.
- “Va bene”.
Faccio da suo assistente. Gli porgo l’unico coltello da cucina che abbiamo, nemmeno tanto
affilato.
- “Dove lo mettiamo?” gli domando.
- “Dobbiamo appenderlo da qualche parte... andrebbe bene qui ad una trave del gazebo. Hai una
corda?”.
Cerco la corda. Trovo uno spago di nylon abbastanza spesso.
- “Può servire questo?”
- “Sì, va bene” risponde.
Intanto affila il coltello. Vedo Rogelio un po’ pensieroso, come se volesse prendere tempo o stesse
riflettendo su qualcosa di importante. Le altre volte che lo avevamo chiamato per macellare il
maiale era molto più deciso. Così mi viene spontanea una domanda:
- “Rogelio, ma tu sei capace a macellare un agnello?”
Mi guarda sogghignando:
- “Sì” risponde con enfasi.
- “Quanti ne hai macellati finora?”
- “Uno!”
Speriamo in bene.
- “Aiutami ad appenderlo” dice.
Gli lega lo spago di nylon attorno al collo, poi lo fa passare al di sopra di una trave di legno.
- “Adesso tu tira la corda” mi ordina “mentre io lo alzo da sotto”.
Il povero agnello rimase appeso, praticamente impiccato, senza un lamento. Diede qualche calcio,
poi Rogelio gli tagliò la gola e morì in pochi secondi. Chissà perché avevo la sensazione che non
avessimo seguito la procedura più corretta. Non me ne intendevo di macelleria, ma per il poco che
ne so gli agnelli non si impiccano. Il lavoro successivo, che portò via molto tempo, fu quello di
scuoiarlo e squartarlo. In tutto ci volle più di un’ora. Demmo a Rogelio la sua parte e il resto lo
mettemmo nel congelatore.
Il giorno dopo amici e parenti, quando gli raccontammo del come avevamo ammazzato l’agnello,
si rotolarono per terra dalle risate:
- “Avete impiccato un agnello? Ah, ah, ah!”.
- “Ma non si appende per il collo! Si appende per le gambe!.
- “Come avete fatto voi tutto il sangue gli è rimasto dentro”.
- “Poi per scuoiarlo bastava fargli un’incisione in un tallone e pompargli dentro l’aria con una
pompa della bicicletta. In modo da staccare più facilmente la pelle dalla carne. Vi sarebbero bastati
pochi minuti”.
Anche stavolta i consigli erano arrivati troppo tardi.
Nel pomeriggio incontro Rogelio:
- “Roque! Mi hanno spiegato cosa c’era che non andava ieri sera...” gli dico ridendo.
- “Sì anche a me!” dice ridendo anche lui.
- “Ma come! Mi avevi detto che avevi già macellato un agnello!”
- “Sì, quello di ieri!”.
Il Puerquito era diventato adulto. Non era grandissimo come i due fottuti maiali di Victoriano, ma
siccome rappresentava un pericolo per i pulcini eravamo costretti a tenerlo tutto il giorno chiuso
nella sua casa-palafitta. Credo che s’annoiasse parecchio. Così, di tanto in tanto, lo facevo uscire,
dopo aver messo al sicuro la signora Chioccia e famiglia. E lui si scatenava letteralmente:
cominciava a correre come un forsennato da un lato all’altro del cortile, facendo un percorso ad otto
attorno all’albero di avocado e quello di banane e a metà tragitto faceva una o più piroette su se
stesso. Roba da circo! Mai visto niente di simile. Secondo me lo faceva apposta per dimostrare di
avere un’intelligenza superiore alla media ed evitare così di finire arrostito. Un’altra volta lo vidi
fare il numero del “guanto di gomma”. Trovò per caso uno dei guanti di gomma che usavamo in
cucina per lavare i piatti, lo prese tra i denti dalla parte del polso e scuotendo la testa a destra e a
sinistra si schiaffeggiava da solo. Stupendo! Un vero clown. Ma purtroppo ciò non gli fu sufficiente
per eludere il suo destino, che per un maschio è doppiamente tragico perché qualche tempo prima di
essere ammazzato deve pure sottoporsi all’evirazione. Assistetti a questo triste evento ed, essendo
maschio anch’io, un brivido mi corse su per la schiena. Non è un bello spettacolo da vedere. E
credo anche che lui, vedendomi lì immobile e complice della situazione, cominciò a pensare che ero
un traditore.
Il giorno che fu ammazzato stetti in disparte; guardai da lontano e solo con la coda dell’occhio e
sentivo tutto il suo sguardo e il suo odio addosso a me, accentuati dagli strilli assordanti provocati
dalla pugnalata infertagli. Mangiai quelle bistecche solo perché non c’era altro da mettere sotto i
denti, ma erano le bistecche meno appetitose che avessi mai avuto occasione di assaggiare.
Con i maiali che avemmo successivamente evitai di “fare amicizia” allo stesso modo che feci con
il Puerquito; e comunque non sarebbe stato possibile perché tutti gli altri, al confronto, mi
sembravano abbastanza idioti.
Nonostante l’esperienza vissuta non mi passò nemmeno per la mente di diventare vegetariano,
semplicemente perché quando non puoi permetterti il lusso di scegliere cosa mangiare devi adattarti
alla situazione. Tentare di adattare la situazione ai propri desideri era praticamente impossibile e
oltretutto sarebbe stato anche folle.
E lì, a Cuba, in quel periodo, rivedere, analizzare, adattare, modificare, mettere in discussione i
propri principi era fondamentale per poter continuare.
CONTINUA......
ALESSANDRO PILOTTO

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