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Vado a vivere a cuba - 8 -

Creato il 19 luglio 2010 da Astonvilla
VADO A VIVERE A CUBA - 8 -
Vicolo cieco
Ho lasciato un po’ indietro la storia del lavoro e della residenza, quindi è giunto il momento di
unire i fili. Eravamo rimasti al punto che per avere la residenza mi mancava un documento assai
importante come il certificato penale e al centro di calcolo non mi assumevano se non avevo la
residenza. Nel frattempo, però, stavo lavorando lì ugualmente da tre mesi. Gratis. Ero già stato a
Bayamo al comando di polizia per consegnare tutti i documenti richiesti, tranne il suddetto
certificato; mi avevano detto che si informavano per vedere se si poteva farne a meno. A fine marzo
decisi che non potevo continuare a lavorare gratis, senza contratto, senza nessuna prospettiva. Le
ore lavorate me le avrebbero pagate più avanti, ma in ogni caso avevo già accumulato tre mesi di
credito e mi sembravano più che sufficienti per decidere di fermare tutto. Così andai da Jorge, il
direttore, annunciandogli che fino a quando non avessi regolarizzato la mia posizione non avrei più
lavorato. Gli consegnai anche una lettera per la direzione di Bayamo, nella quale spiegavo le mie
motivazioni e soprattutto indicavo quali erano stati gli intoppi burocratici e la negligenza di diverse
persone, anche all’interno della loro azienda, che mi avevano portato in quella situazione di stallo.
Riportai a casa il mio computer, ma continuavo comunque a dare un aiuto a Maria Elena, mia
cognata, che lavorava anche lei al centro di calcolo e tutti i fine mese aveva bisogno di compilare
dei moduli contabili, fare dei calcoli e stamparli. In pratica casa nostra era diventata una succursale
del centro di calcolo, ma solo per utilizzi “familiari”, se così si può dire.
Avevo quindi più tempo libero per le mie attività personali; non è che ci fosse da fare chissà che
cosa, anche perché pur avendo tutta la buona volontà spesso la maggior parte delle cose che volessi
fare mi erano impedite dalla mancanza di risorse. Per esempio c’erano tutte le finestre della casa da
pitturare; se avessi dovuto andare a comprare la vernice probabilmente sarei dovuto andare sino a
L’Avana, ma io la vernice l’avevo già perché con lungimiranza me l’ero portata dall’Italia con
quell’immenso “scatolone” da 1100 chilogrammi di cui ho già parlato nel primo capitolo. Mi misi
di buona lena e mi ci volle un bel po’ di tempo per finire il lavoro. Le finestre cubane, infatti, non
sono proprio finestre ma persiane; le finestre vere e proprie, quelle coi vetri, ce l’hanno solo le
meastose ville neocoloniali e qualche altro fortunato possessore. Va già bene che a Cuba ci siano
case e finestre per tutti, considerando che nel resto del continente c’è gente che non ha né l’una né
l’altra. Le case della maggior parte della popolazione hanno queste maledette persiane, composte da
otto o nove assicelle orizzontali orientabili con una maniglia dall’interno della casa. Io le odiavo,
per diversi motivi. Il primo è che non ti permettono di affacciarti: puoi guardare fuori mettendo il
naso tra due assicelle, ma non puoi per esempio spalancarle per sbattere la tovaglia sulla testa del
vicino del piano di sotto. Il secondo è che non sono né a tenuta stagna né a tenuta di vento; se
pioveva un po’ forte ti ritrovavi il salotto bagnato e se tirava vento non faceva praticamente
differenza stare dentro o fuori casa. Il terzo motivo è che non erano nemmeno a tenuta acustica e
questo comportava il fatto che io sapevo molti fatti degli altri e gli altri, presumibilmente, sapevano
molti fatti miei, di quelli che normalmente dovrebbero rimanere tra le quattro mura domestiche; e
certe sere quando avrei voluto dormire in santa pace dovevo invece sorbirmi il televisore del vicino
che stava guardando un film americano di serie B in lingua originale con sottotitoli in spagnolo a
volume insopportabile. Per quale motivo dovesse tenere il volume così alto non si è mai capito. E
poi l’inglese nemmeno lo sapeva! Avrei voluto aprire la finestra e tirargli un soprammobile, ma ciò
non era possibile proprio perché non c’erano finestre ma solo persiane. Il quarto motivo è che per
pitturarle bisognava smontarle completamente e ciò richiedeva pazienza e soprattutto tempo. Una
volta che hai smontato una persiana devi rimontarla prima di sera, se no ti tocca restare con la casa
praticamente aperta. Ero deciso a fare un lavoro ben fatto quindi smontai le persiane una per una,
per pulirle meglio. Gli amici e i parenti che passavano da casa nostra e mi vedevano con una
persiana smontata mi credevano pazzo:
- Ale, ma non c’è mica bisogno di smontarla! Puoi pitturarla ugualmente.
- Sì, ma io voglio pulirla, devo togliere i residui della vernice vecchia...
- Ah, io gli do la vernice nuova sopra l’altra! Fa lo stesso!
Secondo me non faceva lo stesso e quindi smontai tutte le persiane, le pulii, le pitturai e le
rimontai. Poi contemplai il mio lavoro ed ero molto soddisfatto. L’unico inconveniente fu che,
siccome non avevo un piano d’appoggio per lavorare, dovetti passare parecchie ore accovacciato a
terra. Non è una bella posizione: anche se non hai mai sofferto di emorroidi ci sono buone
probabilità che quella diventi la prima volta. E infatti così fu. Per diversi giorni non potei più
sedermi comodamente su una sedia. In casa ridevano a crepapelle; io ridevo un po’ meno. Già è
odioso soffrire di emorroidi in Italia, figurarsi a Niquero dove in farmacia non si trova quasi niente
(va bene, qualcosa si trova, ma niente che di solito ti serva in quel momento). Qualche buona anima
mi procurò una strana crema puzzolente; la applicai un paio di volte ma aveva veramente un odore
orribile che era un’offesa per il mio deretano e quindi rinunciai. Alla fine guarii lo stesso, ma
successivamente evitai accuratamente di assumere posizioni “pericolose”.
Un giorno venne Jorge a casa mia per parlarmi: mi disse che aveva avuto da Bayamo la risposta
alla mia lettera e confermavano che senza residenza non potevo lavorare. Va bene, aspetteremo la
residenza. Ma ormai il fatto di poter lavorare al centro di calcolo non era più tra le cose più
importanti della mia vita.
Inoltre qualcosa cominciò a risvegliarsi nella mia coscienza; mi stavo convincendo che ormai
qualcosa era fallito nella mia idea di vivere a Cuba. Tante idee, tante speranze, troppo ottimismo e
troppi intoppi. E poi, anche se avessi ottenuto il posto di lavoro, con uno stipendio cubano cosa
potevo aspettarmi dal futuro? C’erano migliaia di cubani che cercavano una vita migliore all’estero
perché con quello stipendio oggettivamente era impossibile sopravvivere e io cosa facevo?
Pretendevo di dimostrare il contrario? E infatti spesso mi sentivo a disagio, quando al centro di
calcolo parlavo con qualche collega o mi presentavano a qualche loro amico:
- Ti presento Ale, un italiano che è venuto a vivere qui e lavorerà con noi.
- Dall’Italia viene a vivere a Cuba?? - rispondeva sbigottito l’interlocutore sorridendo
ironicamente, nel migliore dei casi. Altre volte invece non rispondevano nulla e semplicemente mi
rivolgevano uno sguardo accusatorio e sprezzante allo stesso tempo. E ci credo! Se mi mettevo nei
suoi panni capivo benissimo cosa volesse dire trovarsi di fronte a uno che viene da un paese “ricco”
e che gioca a fare il “povero”. In effetti tutti sapevano benissimo o supponevano con ragione che io
in tasca avessi qualche migliaio di dollari e quindi per me i problemi comuni erano parecchio meno
critici che per loro. Io cercavo di rendermi il più possibile invisibile, ma non era facile. Ovunque e
comunque io ero uno straniero venuto da un paese ricco e quindi la maggior parte delle persone
della strada pensava che io dovessi assolutamente e obbligatoriamente sostenere un certo stile di
vita molto elevato. Così anche se cercavo di vivere modestamente e di non compiere azioni che
sicuramente avrebbero potuto irritare il prossimo mi trovavo, mio malgrado, sempre in una
posizione alquanto scomoda e sottoposto a continue critiche. Per la gente dovevo vivere come un
ricco, non era concepibile che andassi al supermercato come tutti gli altri a fare la spesa o alla
bodega a comprare lo zucchero con la libreta. E dove dovevo andare a fare la spesa? In Italia?
Quando andavo al supermercato mi mettevo in coda come tutti gli altri e subito cominciavano a
squadrarmi dalla testa ai piedi come se avessero visto un marziano. Poi qualcuno, gentilmente, mi
diceva: passi, passi avanti, lei è straniero e ha la priorità. Non c’è problema, rispondevo, aspetto il
mio turno. E mi rendevo conto che avevo creato più scompiglio adottando un comportamento che io
ritenevo onesto, che se avessi accettato di passare davanti a tutti. Infatti a quel punto sapevo che
molti mi odiavano, perché se fossero stati al posto mio sarebbero volentieri passati avanti, per
risparmiarsi una buona mezz’ora di tempo, che avrebbero potuto impiegare più efficacemente a casa
a preparare il pranzo o ad accudire i figli. Invece il mio primo posto non potevo neanche barattarlo:
come avrei potuto? Con quale criterio avrei dovuto scegliere a chi cedere il mio posto? Così restavo
lì in coda come uno scemo cercando di ignorare lo sguardo dei presenti e pentendomi di non aver
accettato di passare avanti per sparire al più presto.
Secondo i pettegolezzi correnti io avevo in casa un televisore per ogni stanza, mangiavo carne
tutti i giorni e in Italia avevo delle aziende molto produttive che mi permettevano di vivere di
rendita. Invece in Italia non avevo più niente, a parte una vecchia moto parcheggiata nel garage di
mio cugino e pochi soldi su un conto corrente, e quando ero partito per trasferirmi a Cuba avevo
portato con me circa tremila dollari che mi dovevano bastare fino al prossimo viaggio in Italia che
avevo in programma per fine giugno. E dopo?
Intanto da Bayamo la polizia mi fece sapere che il certificato penale era essenziale per ottenere la
residenza quindi in un modo o nell’altro dovevo procurarmelo. Mia sorella dall’Italia mi confermò,
durante una telefonata, che mediante una delega avrebbe potuto farselo rilasciare dalla procura e
inviarmelo per posta, ma aveva bisogno di una fotocopia della mia carta d’identità (di questa
difficoltà ho già parlato nel primo capitolo). Alla fine riuscii a fare la fotocopia e gliela inviai.
Si avvicinava il mese di giugno: avevo in programma di andare in Italia a far visita a mia madre
e mia sorella, usando parte dei pochi soldi che ancora mi erano rimasti. Di quale fosse la difficoltà
per tentare di prenotare un volo per l’Italia ho già parlato nel capitolo 3, quindi non starò a ripetere i
motivi per cui dovetti alla fine decidere di andare direttamente a L’Avana per sbrigare questa
faccenda. Mi accompagnò Angel, un nostro cugino. Facemmo il viaggio in treno da Manzanillo
senza problemi, il che non era poca cosa considerando che di solito il treno si rompeva almeno una
volta durante il tragitto. A L’Avana riuscii a prenotare un volo per il 25 giugno e il resto della mia
breve permanenza nella capitale sarebbe stato tranquillo, senonché pareva che oramai qualsiasi cosa
io facessi dovesse essere accompagnata da qualche brutta sopresa.
Era domenica pomeriggio e io e Angel, che eravamo ospiti a casa di sua sorella a Bahía,
decidemmo di andare a fare un giro a L’Avana Vecchia. Prendemmo l’autobus e scendemmo nei
pressi del Paseo del Prado. Di lì proseguimmo a piedi per San Rafael in direzione Vedado. Ad un
certo punto incrociammo due poliziotti che ci chiesero i documenti: io avevo lasciato il passaporto a
casa e quindi mostrai la carta d’identità italiana senza nessun problema. Angel mostrò la sua e
siccome non era dell’Avana gli chiesero il motivo della sua presenza nella capitale; in più era anche
disoccupato (sulla carta d’identità cubana c’era scritto di tutto!) e queste due condizioni sembrava
che fossero sufficienti per approfondire il controllo. Ci portarono dai loro colleghi vicino ad un
camion militare sul quale c’era scritto “Tropas Especiales”, qualcosa di simile al nostro Reparto
Celere e questo significava che nulla di buono stava per accadere. Controllarono di nuovo i
documenti parlando per radio con la centrale; nei miei confronti non c’era apparentemente nessun
problema, poi dopo aver controllato il documento di Angel ci dissero di andare verso la parte
posteriore del camion. Un altro agente ci disse: “Salite!”. “Dove andiamo?” chiesi stizzito. “Salite.”
ripeté insistendo. Salimmo sul camion e scoprimmo di essere in compagnia di altri sfortunati, che
avevano l’aria di essere lì già da un bel pezzo perché alcuni si lamentavano a voce alta: “...che io
vorrei sapere se è giusto che ti devono prendere così senza motivo...” diceva uno sui cinquant’anni.
Un altro, visibilmente preoccupato, tentava di sciogliere l’empasse in cui ci trovavamo tutti quanti:
“Adesso io devo sapere... Sergente! Sergente! Senta, abbia pazienza, mia moglie e mio figlio mi
stanno aspettando lì ai giardini... non sanno che sono qui.. Sia gentile... mi faccia avvisare... Mi
stanno cercando... Non potete trattenermi qui...” Niente da fare, il sergente scosse la testa con aria
molto seria e, senza dire parola, con un movimento della mano fece cenno di sedersi. Un altro
ancora, più rassegnato, stava tranquillamente seduto al suo posto con aria sorniona dicendo:
“Amico, da qui non ci muoveremo finché non lo dicono loro, puoi startene tranquillo li seduto...”.
Io e Angel ci guardavamo e non sapevamo che dire; non restava che aspettare. Dopo un quarto
d’ora circa cominciarono a chiamarci uno per volta e ci invitarono a scendere; il mio nome, però,
non venne pronunciato, per il semplice motivo che non dovevo essere tra quelle persone; infatti
quello che sembrava essere il comandante della situazione si stupì del fatto che io fossi salito
insieme agli altri, quindi chiamò uno degli agenti per rimproverarlo, si scusò con me e ci lasciarono
andare. Non ci avevo capito molto, perché nulla ci fu spiegato. Ma io una spiegazione l’avevo. Tutti
quelli che avevano fermato e che erano sul camion avevano almeno una caratteristica in comune:
erano di pelle nera. E sono sicuro che l’altra caratteristica era di non essere residenti o originari
dell’Avana. Era uscita da poco una legge che regolamentava, limitandola, l’immigrazione interna
dalle provincie orientali verso la capitale e quasi sicuramente si stavano facendo dei controlli
casuali sulla popolazione. Tutto legittimo, non si può negare, ma perché non dare spiegazioni? Poi questa legge mi sembrava proprio una fesseria: come si poteva pensare di porre dei limiti al
movimento migratorio interno della popolazione? Forse chi era orientale non aveva diritto di
cercare lavoro altrove? Il governo diceva che L’Avana non poteva sopportare una immigrazione
incontrollata. Problemi logistici, dicevano; l’approvigionamento di acqua potabile, luce, viveri da
distribuire con la libreta poteva collassare. Secondo me motivi poco convincenti. Mi sembrava
piuttosto una misura protezionista contro una possibile “invasione” di orientali gradita a pochi
(tranne quando c’era da assumere migliaia di poliziotti in una volta sola oppure costituire uno di
quei contingenti di lavoratori edili per far fronte a delle necessità improvvise: lavori che a L’Avana
pochi ambivano a fare). Poi di che si potevano lamentare a L’Avana se di viveri con la libreta ne
ricevevano più di noi che stavamo a Oriente? E’ chiaro che se uno vive in un villaggio sperduto in
una provincia orientale in cui non c’è lavoro (e da mangiare ancora meno) prima o poi decide di
tentare l’avventura altrove, dove c’è più benessere. E a L’Avana di benessere ce n’era parecchio
rispetto al resto del paese.
Per esempio avevo creduto fino allora che la libreta garantisse un minimo uguale per tutti,
dappertutto. Non era così. Nella capitale si consegnavano quantità di piselli secchi esagerate, da far
venire la nausea. Infatti gli avaneri che conoscevo ne avevano delle scorte incredibili; non li
mangiavano nemmeno più perché erano stufi di minestra di piselli, piselli in umido, ecc. Stessa cosa
per quanto riguardava le patate. Quintali e quintali di patate rimanevano letteralmente a marcire nei
mercati statali, perché la gente ne era stufa. Noi a Niquero non vedevamo patate e piselli da mesi.
Non solo: si narrava di camion statali targati Habana che venivano a caricare cipolle da destinare al
mercato della capitale. Superfluo dire che noi non vedevamo cipolle. E un giorno sul quotidiano
Granma comparve un comunicato a mezza pagina del ministro della difesa Raul Castro, il quale si
rammaricava per la situazione dei mercati statali della capitale, dove quintali di patate marcivano
quotidianamente, e rimproverava i responsabili dell’accaduto; bene, pensavo, meno male che
qualcuno se ne è accorto. Peccato che lui avesse a cuore questa situazione solo perché centinaia di
militari dell’esercito erano stati impiegati nell’agricoltura per aumentare la produttività e ciò gettava
fango sull’immagine dell’esercito; del fatto, invece, che noi ad Oriente non ricevessimo quasi niente
non era cosa che lo scandalizzasse più di tanto. Ma evidentemente il mio punto di vista era diverso
dal suo.
Tornai a Niquero e dopo pochi giorni ricevetti una lettera da mia sorella dall’Italia con il mio
certificato penale. Finalmente potevo completare la pratica della residenza. Eravamo ormai ai primi
giorni di giugno ed erano passati sei mesi dal mio arrivo, durante i quali erano successe tante cose
che non avevo nemmeno lontanamente immaginato. Avevo la sensazione di essermi messo in un
vicolo cieco, per di più a senso unico: un muro davanti e nessuna possibilità di tornare indietro. Non
mi è mai piaciuto tornare indietro sui miei passi; se devo superare un ostacolo preferisco andare
avanti e tentare di tutto fino a superare anche l’ultima difficoltà. Ma questa volta sembrava
veramente che al di là del muro non ci fosse nulla. Allora che fare? Un giorno Maribel mi fece una
proposta: vivere tra l’Italia e Cuba. Conosceva una ragazza cubana sposata anche lei con un italiano
e vivevano sei mesi in Italia e sei mesi a Cuba. Come facessero sinceramente non lo so e mi
sembrava abbastanza complicato. Dovevo pensarci, non era una cosa facile. In che casa avremmo
abitato in Italia e come avremmo pagato l’affitto nei mesi in cui stavamo a Cuba? E di che lavoro ci
saremmo mantenuti?
Andai a Bayamo a consegnare il certificato penale per avere finalmente in cambio la carta
d’identità. Mentre attendevo in sala d’attesa mi misi a leggere degli avvisi nella bacheca; uno era
rivolto agli stranieri residenti permanenti (cioè la categoria alla quale sarei appartenuto di lì a pochi
minuti) e diceva pressappoco così:
“Gli stranieri residenti permanenti nel territorio cubano che debbano effettuare viaggi all’estero
saranno equiparati ai cittadini cubani, quindi dovranno richiedere presso questi uffici il Permesso
d’Uscita e corrispondere l’importo relativo di 150 dollari”.
Forse non avevo letto bene, anche perché l’inchiostro era un po’ sbiadito. Rilessi con calma ma
mi resi conto di non essermi sbagliato. Mi voltai verso gli uffici, stavo per prendere la rincorsa per
correre dietro al mio certificato penale e tutto il resto, avrei voluto gridare: “Fermaaaaaa!!!!” ma
proprio in quel momento comparve l’ufficiale con la mia carta d’identità in mano: “Ecco a lei.
Complimenti! Adesso è un residente permanente!”. Così nel vicolo cieco a senso unico in cui ero
finito si chiuse dietro di me anche una cancellata alta sei metri di cui non si sapeva chi avesse le
chiavi. Le settimane seguenti furono impiegate per trovare le “chiavi” della cancellata.
Mi recai agli uffici di immigrazione di Manzanillo per richiedere il Permesso d’Uscita. Di solito
il rilascio di questo documento richiedeva trenta giorni, quando andava bene. Io avevo il volo il
giorno 25 giugno e non ce l’avrei sicuramente fatta. Così dovetti pure telefonare a L’Avana
all’agenzia viaggi per spostare la prenotazione. Telefonare era un’impresa estenuante, perché non si
riusciva mai a prendere la linea. Il giorno 20 riuscii a parlare con qualcuno dell’agenzia e mi
confermarono che si poteva spostare la data ma avrei dovuto richiamare il giorno 24. Richiamai il
giorno stabilito ma rispose un’impiegata che non sapeva nulla del mio biglietto. Il giorno seguente,
quello della partenza, chiamai di nuovo senza speranza, perché pensavo di aver perso biglietto e
soldi, invece per fortuna si risolse tutto bene ed ottenni una nuova prenotazione per il 6 luglio.
Qualche giorno dopo un agente dell’ufficio di immigrazione venne a casa nostra a chiedermi il
passaporto, poiché a Bayamo si erano dimenticati di metterci un timbro. Ci mancava pure questa!
Non avevo nessuna voglia di darglielo perchè temevo che poi non me l’avrebbero restituito in
tempo. D’altra parte non avevo alternative e dovetti rassegnarmi a consegnarglielo. Così il mio
passaporto stava chissà in quale ufficio, il Permesso d’Uscita doveva essere rilasciato chissà da chi
e chissà quando e il mio volo partiva il 6 luglio. Inoltre dovevo ancora prenotare il pullman da
Niquero a Manzanillo e il treno da Manzanillo a L’Avana. Solo una straordinaria coincidenza
avrebbe potuto far sì che tutte queste cose andassero a buon fine nell’ordine esatto.
Intanto Maribel stava aspettando la mia risposta alla sua proposta di vivere tra Cuba e l’Italia.
Ora avevo le idee chiare. Non era facile avere le idee chiare in quella situazione, ma ad un certo
punto capii che per me vivere a Cuba non avrebbe mai funzionato, perlomeno non nel senso in cui
lo intendevo io fin dall’inizio. Forse il motivo fondamentale fu un mio errore di valutazione nel
pensare di poter vivere come un cubano. Non era possibile. Al massimo, se fossi stato molto ricco,
avrei potuto vivere di rendita e riuscire anche a stare alla larga dalle trappole burocratiche (sapevo
che c’erano alcuni stranieri che facevano così), ma tutto sommato non so nemmeno se mi sarebbe
piaciuto. Non era la vita che cercavo io in un paese povero e meno che mai a Cuba; pensavo di
riuscire a entrare a far parte di quel paese in cui il sogno socialista rende tutti uguali con stessi
doveri e stessi diritti per tutti, in cui tutti partecipano nella vita comune, in cui ci si sente uniti da
un’identità comune indipendente dalla propria nazionalità, sia essa cubana o italiana, ma invece mi
rendevo conto che se dalla mia parte c’era tutta la buona volontà dall’altra parte c’era un muro di
gomma. Avevo la sensazione (anzi, quasi la certezza) che per gli stranieri quel mondo fosse
proibito. Una voce lontana sembrava dirmi che per Cuba e per i cubani sarei stato molto più utile
lavorando nel mio paese, venendo qui solo per trascorrere le vacanze, piuttosto che lavorare nel
centro di calcolo di Niquero.
Oltre tutto i miei tremila dollari prima o poi sarebbero finiti e senza poter lavorare e accedere alle
novità tecnologiche del mondo informatico in continua e rapida evoluzione anche la mia
preparazione professionale sarebbe presto diventata obsoleta. Pensavo quindi che tornare a vivere e
lavorare in Italia fosse la decisione più saggia. Dovevo ammettere la mia sconfitta. Mi feci coraggio
e lo dissi a Maribel, un pomeriggio che andammo a fare il bagno al mare. Pianse e mi disse
rassegnata: “Lo immaginavo che sarebbe finita così.”. Decidemmo di trasferirci tutti e due in Italia:
non sapevamo se avrebbe funzionato, ma era l’unica alternativa che ci era rimasta per continuare a
vivere insieme.
Per prendere il treno Manzanillo-L’Avana ebbi un colpo di fortuna (o una raccomandazione,
dipende dai punti di vista): un nostro parente mi procurò un posto che normalmente era riservato ai
membri del Poder Popular di Niquero per i viaggi di lavoro: partenza il 3 luglio. Andai poi alla
stazione degli autobus di Niquero per prenotare un passaggio fino a Manzanillo, ma non c’era posto
per quel giorno. Dagli uffici di immigrazione di Manzanillo, nel frattempo, mi avvisarono che
potevo andare a Bayamo il 2 luglio a ritirare il Permesso d’Uscita. Il primo luglio tentai ancora alla
stazione di autobus di Niquero di trovare un posto, ma senza successo.
Il 2 luglio andai a Bayamo con la moto di Nestor. Ritirai il passaporto, pagai i 150 dollari e ritirai
il Permesso d’Uscita. A Niquero riuscii anche miracolosamente a trovare un posto sull’autobus per
il giorno seguente. Tutto a posto, quindi; le coincidenze erano avvenute tutte nel momento giusto.
Speravo comunque ardentemente che non ci fossero novità dell’ultimo minuto, perché sicuramente
non sarei riuscito a sopportare ulteriori sorprese. Ma mi sbagliavo.
L’autobus per Manzanillo mi lasciò davanti alla stazione del treno. Ero parecchio in anticipo,
perché la partenza era prevista in tarda serata. Quando arrivò il convoglio capii che c’erano dei
problemi abbastanza seri, poiché parecchia gente si stava agitando e chiedeva spiegazioni al
personale della stazione. Ci informarono che il giorno prima un vagone non era partito a causa di un
guasto e 86 persone erano rimaste a terra:
- Oggi la priorità è per gli 86 di ieri che non sono partiti. - annunciò l’altoparlante. - Tutti quelli
che hanno una prenotazione per missione ufficiale del Poder Popular, Partito e simili possono
andare a casa e tornare domani.
Tornare domani? E stasera chi mi riporta a Niquero? E se poi non parto nemmeno domani? No,
non potevo restare impotente. Andai negli uffici della direzione e cercai di far presente la mia
difficoltà, dicendo che avevo un volo per l’Italia per il giorno seguente. Era una balla, naturalmente,
perché il mio volo era due giorni dopo, ma ero ormai disposto a qualsiasi cosa pur di mettere fine a
questo stillicidio. Purtroppo non mi diedero molte speranze.
- Si metta a sedere in sala d’attesa, vedremo cosa possiamo fare.
Molti vennero mandati a casa. Gli altri cominciarono a salire sul treno già pronto sul binario di
partenza. Passò parecchio tempo e piano piano la sala d’attesa si svuotò. Rimanemmo solo io e un
altro ragazzo. Pensavo ai turisti italiani di Varadero, di Cayo Largo, di Guardalavaca, immersi nella
loro finta realtà in cui tutto è bello e possibile e a portata di mano, alle loro auto targate TUR
alimentate con tutta la benzina che desiderano e che possono comprare in qualsiasi distributore
CUPET tirando fuori una carta di credito, ai loro pullman e treni che non si rompono mai, al buffet
del loro hotel in cui non mancano mai uova e carne di qualità, ai ragazzi e ragazze cubane che
hanno conosciuto nei villaggi turistici e che li hanno fatti divertire da mattino a sera nelle discoteche
e nelle camere da letto con aria condizionata al riparo dalle orde di zanzare e dagli apagones, ai loro
amici in Italia ai quali racconteranno la loro vacanza a Cuba dicendo: “Bellissimo, stupendo, ci
andrei a vivere subito!”. E invece la nostra vita quotidiana, quasi invisibile allo sguardo dei turisti,
si svolgeva nella coda alla bodega o al mercato, in cucina a pulire il riso e ad accendere il fornello
con l’alcol e il kerosene, quando c’era, oppure con il carbone o con la legna, si svolgeva nelle notti
buie durante un apagon, in una coda per la strada aspettando un passaggio d’autobus che non si sa
se mai arriverà, in un locale notturno di periferia dove non si riusciva mai ad entrare perché
mancava la luce e quando c’era la luce mancava il rum, si svolgeva nelle serate del vicino davanti
alla tv guardando la telenovela, mentre nel tuo cortile i ladri approfittavano della tua assenza per
portarti via il maiale o i pantaloni stesi ad asciugare.
Si svolgeva anche in una remota e buia stazione del treno alle dieci e mezza di sera di fronte a un
altro sfortunato sperando, malignamente, che nel caso fosse rimasto solo più un posto sul treno
toccasse a lui la malasorte di restare a terra. Invece alla fine, per fortuna, ci chiamarono tutti e due e
ci fecero salire in tutta fretta sul convoglio che due minuti dopo partì portandoci lontano.
CONTINUA
ALESSANDRO PILOTTO

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